Perché l’Accademia venne chiusa: Filosofia ed Iniziazione

 

Perché l’Accademia venne chiusa: Filosofia ed Iniziazione
Testo redatto da Daphne Varenya Eleusina e pubblicato su EreticaMente

Accademia Platonica, Mosaico da Pompei (Villa di T. Siminius Stephanus), Napoli, Museo Archeologico.
“Il pensiero dell’Intelligibile, puro e semplice, passa attraverso l’anima balenando come un lampo, offrendo talora per una sola volta, l’opportunità di toccare e di contemplare. Così, Platone e Aristotele chiamano ‘epoptica’ questa parte della filosofia, perché colui che ha davvero afferrato la pura verità di esso, ritiene di possedere, come un’iniziazione, il fine ultimo della filosofia.”
(Arist. Eudemo fr. 10 Ross)


Fedele a quanto detto in apertura del mio primo articolo per EreticaMente, continuo a divulgare e cercare di spiegare fatti e principi poco noti, la cui conoscenza è però fondamentale per poter essere in modo autentico “eredi e continuatori del mondo Greco-Romano”. Un altro tema che ha subito numerosissime distorsioni, innumerevoli fraintendimenti, volontari e non, e che non è pertanto quasi mai stato spiegato in modo opportuno è quello che riguarda la relazione fra Philo-Sophia e Sapere Sacro. Solitamente, si insegna agli studenti che, di punto in bianco, gli Elleni passarono dal Mito (giudicato, a seconda delle posizioni, o come una sorta di ‘età dell’oro’ oppure come il periodo dell’infanzia in confronto alla piena maturità – entrambe le tesi non hanno senso da un punto di vista tradizionale, e vedremo bene in seguito il perché) alla dimensione razionale della Filosofia: abbiamo dunque, da un lato, i fantasiosi ed ingenui Elleni delle ‘favolette mitologiche’, e dall’altro, il ‘miracolo razionale’ della filosofia ellenica, come se le due cose non avessero nessuna relazione e non fossero ispirate dalle medesime divinità!
Se rimaniamo fedeli agli insegnamenti degli Antichi, dobbiamo invece, in un certo senso, riscrivere la storia della Filosofia – intendo naturalmente solo quella che può essere considerata tale, l’autentico Amore per la divina Sapienza che rende invasati, “portatori di tirso”, iniziati ed epopti “coloro che fanno parte del coro che canta la misteriosa verità sul divino” (Proclo, Theol. Pl. I 1). Allora, seguendo solo questo principio, dobbiamo affermare che i primi veri filosofi sono i teologi della Tradizione: Orfeo, Museo, Eumolpo – i primissimi iniziatori ai Misteri – e, senza alcun dubbio, anche il divino Omero. Questo ce lo fa comprendere in modo straordinario lo stesso Proclo, quando, proprio nel proemio della Teologia Platonica, afferma che la prima trasmissione della Filosofia da parte degli Dei (“la Filosofia proviene dagli esseri superiori e rivela il Nous celato in Essi”) è “prima trasmissione dell’iniziazione concernente le realtà divine” – notare la straordinaria somiglianza con l’Inno Omerico a Demetra: “Ella poi si mise in cammino, ed insegnò ai re che rendono giustizia – a Trittolemo, a Diocle agitatore di cavalli, al forte Eumolpo, a Celeo signore di eserciti – la norma del sacro rito; e rivelò i Misteri solenni, a Trittolemo, a Polisseno, e inoltre a Diocle, (i Misteri) venerandi…”. Questa trasmissione “rifulse in modo venerabile ed ineffabile, come avviene nel corso dei sacri riti” (cfr. “chi è giunto all’interno e ha visto una grande luce, come quando si schiude un santuario…” Plutarco Mor. 81d-e). Il tema della luce che rifulge, come miglior termine di paragone tanto per l’iniziazione ai venerabili Misteri quanto per il raggiungimento del “fine ultimo della Filosofia”, è di straordinaria importanza: non solo ricorda le parole di un Dio (Oracoli fr. 115) “Bisogna che ti affretti verso la luce, verso i raggi del Padre, da cui ti è stata inviata l’anima, rivestita di un intelletto molteplice”, rimanda anche in modo diretto alla “volontà di forma simile al Bene” e alle illuminazioni che generosamente provengono dagli stessi Dei e che, attraverso purificazioni ed iniziazioni, permettono al vivente di conoscere e contemplare nuovamente le beate visioni ed innalzarsi verso la salvifica Madre degli Dei (cfr. “Osserverò la preziosa luce, da cui viene la possibilità di fuggire la miseria dell’oscura generazione” Proclo, Inno alla Madre degli Dei, Hekate e Giano). Non può a questo punto sfuggire il fatto lampante che la vera Filosofia, quella che viene dagli Dei (e non quella basata sulle mere opinioni dei mortali, ossia i ¾ di quanto si può leggere in un comunissimo ‘manuale di filosofia’), rivela e conduce alla contemplazione delle stesse luminose Forme divine che i beati ‘contemplanti’ delle “notti bianche di luce” incontravano nel “santuario comune di tutta l’umanità”, in “Eleusi profumata d’incenso”. Ecco perché non tutto ciò che i contemporanei classificano come ‘filosofia’ può essere ritenuto degno di questo nome sacro: la vera Filosofia è una formulazione misterica e simbolica, esattamente come i miti, a proposito dei Misteri che riguardano gli Dei, l’essenza di tutte le cose, le Forme e la natura di tutti gli enti, e la verità che fa coesistere enti ed anime, fino a ricongiungere il filosofo con la “Fonte materna” e a farlo così ritornare “presso il Porto paterno, il Porto dell’Eusebeia”.
Quest’ultima espressione rimanda direttamente all’Odissea: a chi non viene in mente, leggendola, l’Eroe che tanto ha sofferto per rivedere la Patria e il porto presso cui ritrova Atena? E’ chiaro che Omero deve essere annoverato fra i teologi che, misteriosamente, “per cenni”, come usa il Dio che ispira i poeti attraverso le sacre Muse – Muse che hanno “reso note ai mortali le celebrazioni dei Misteri” (Inno Orfico alle Muse) – rivela la verità circa il divino. Anche in questo caso, la comprensione delle verità insite nei poemi di Omero è paragonata all’ingresso in un santuario, e al conseguente avvicinamento al divino: “se poi alcune persone, per ignoranza, non sanno riconoscere l’allegoria omerica, e non sono state in grado di addentrarsi nei recessi della sua sapienza… senza rendersi conto di quanto è stato espresso in senso filosofico, adattandosi a quella che sembra una finzione mitologica, ebbene, costoro si allontanino. (cfr. il comando dell’Araldo sacro durante la proclamazione formale dei Misteri: “Se c’è qualcuno che non è iniziato alle venerabili iniziazioni, o chi è ateo, o chi non abbia una pura disposizione, questi deve andarsene dalle sacre cerimonie.”). Noi invece, che ci siamo purificati all’interno delle sacre zone di aspersione dei templi, andiamo alla metodica ricerca della maestosa verità dei poemi.” (Er. Gramm. Quest. Om. 3).
Una delle dottrine fondamentali, tanto per fare un esempio lampante e poco noto, è quella della discesa/ascesa delle anime e della reincarnazione, dottrine che quasi tutti associano alla sapienza della Tradizione Induista ma che, in realtà, vengono trasmesse anche dai sacerdoti ed iniziati di quella Ellenica. Infatti, ricollegandoci al discorso su Omero come teologo, ritroviamo questa dottrina nei suoi poemi (Ps. Plut. Vita e poesia di Omero, 125-126): “a questo consegue anche l’altra dottrina di Pitagora, quella della trasmigrazione delle anime dei morti… neppure questo concetto è estraneo al pensiero di Omero… la trasformazione dei compagni di Odisseo in porci o altri animali simili allude a questa verità: che le anime degli uomini stolti trasmigrano in specie di corpi ferini (non si deve necessariamente intendere una reincarnazione in forme animali, contestata da autori notevolissimi come Giamblico: si può anche leggere “ferino” come riferimento alla ‘bestialità’ degli esseri umani che si sono allontanati dagli Dei, i “cani senza ragione” degli Oracoli), cadendo nella peregrinazione attraverso il tutto, la quale egli (Omero) chiama Circe… (cfr. “facendo passare tutta l’anima dal vagabondaggio della generazione alla vita felice, che pregano di ottenere anche i seguaci di Orfeo quando sono iniziati a Dioniso e Kore: “e di essere liberati dal cerchio e di risollevarsi dalla sventura.” Pr. In Tim.III 296, 7)… l’uomo assennato (colui che possiede la sophrosyne), invece, Odisseo stesso, non subì tale trasformazione, in quanto ne ricevette l’immunità da Hermes, ossia dal logos” (da non dimenticare che Hermes è collegato alla Verità, ed il corrispondente stile di vita è quello del Filosofo – Proclo Theol. Pl. III 18).
La stessa dottrina viene tramandata dai veri filosofi: ad esempio, Giamblico (De anima, 26) sostiene che nel Timeo si narri il primo venire in essere delle anime (dal Cratere, ad opera del Demiurgo: ciò che viene definita “semina demiurgica delle anime”): “l’Anima del Tutto prenderà dimora nell’intero universo, le anime degli Dei visibili nelle sfere celesti, e le anime degli Elementi negli elementi stessi, a cui anche le anime sono assegnate in ciascuna distribuzione. Da questi luoghi avvengono le discese (kathodos, termine ‘tecnico’ dei Misteri, così come l’anodos, l’ascesa, indica anche la ricongiunzione dell’anima al Principio) delle anime…” Continua (De anima, 29) affermando che non tutte le discese delle anime sono uguali: alcune discendono volontariamente (oppure, inviate dagli Dei, come afferma Proclo a proposito dei teologi e dei filosofi divinamente ispirati, Theol. I 1) “per la salvezza, purificazione e perfezione di questo regno (quello materiale)”; vi sono poi anime che devono discendere/ritornare a reincarnarsi “per esercizio e correzione del loro proprio carattere” (cfr. “per tali ragioni anche Platone assegna mille anni alle anime sottomesse a Plutone, mentre Orfeo dopo trecento anni dai luoghi sotterranei e dalle prigioni di là le riconduce alla nascita, facendo anch’egli delle tre centinaia un simbolo del periodo completo in cui le anime umane sono purificate per il modo in cui vissero quando si volgevano verso la nascita.” Pr. in RP. II 173, 12); infine, vi sono appunto le anime non purificate, che sono forzate a reincarnarsi per scontare, come direbbero gli Induisti, il proprio karma negativo, accumulato nelle vite precedenti. Non certo a caso, subito dopo, Giamblico usa il termine metaforico “neoteleis”, iniziati da poco, per riferirsi a coloro che sono “compagni e amici degli Dei” (coloro che “hanno visto molto”, nel senso in cui Platone, nel Fedro, parla delle visioni precedenti alla discesa nei corpi: “mostrando in che modo, seguendo gli Dei, prima dei corpi e della generazione, veniamo ad avere quella beata visione: “allora la Bellezza era da vedere nel suo splendore, quando con un coro felice avevamo una beata visione e contemplazione, noi trovandoci al seguito di Zeus, mentre altri al seguito di un altro degli Dei, vedevamo e nello stesso tempo venivamo iniziati a quella che è lecito dire la più beata fra le iniziazioni.” (Pr. Theol. IV, 9), ossia coloro che vivono come “liberati in vita”, liberi dai legami, dalle passioni e dalla corporeità pur dimorando in un corpo mortale – al contrario, “per coloro che sono saziati dai desideri e sono colmi di passioni” è con queste stesse passioni che si ritroveranno ciclicamente intrappolati nei corpi, continuando a reincarnarsi continuamente: “essere legato dal Dio Demiurgo, che stabilisce per tutti la sorte secondo il merito, alla ruota del destino e della nascita, da cui è impossibile essere liberato, secondo Orfeo, senza rendersi propizi quegli Dei ‘ai quali impose Zeus di liberare dal cerchio e di risollevare dalla sventura le anime umane’.” (Simpl. in De Caelo II, 1, 284).
Qui si fa ritorno allo stile di vita, ossia: come si rendono propizi gli Dei? Giamblico sottolinea (De anima 39) che quello migliore è quello che si consegue a partire dalla migliore purificazione, che spezza i legami con le passioni, le vane opinioni e l’attaccamento ai piaceri sensibili ed illusori, conducendo all’ “assimilazione del soggetto pensante a quello pensato”, o dell’amante all’amato, come direbbe la Diotima del Simposio. Il termine chiave da tenere qui in considerazione è l’assimilazione, perché, ancora una volta, ci ripropone un’analogia con i venerabili Misteri: “il quinto grado (dell’iniziazione) è la più perfetta felicità che ne sorge e, secondo Platone, assimilazione alla divinità, per quanto sia possibile per un essere umano.” Seguiamo dunque le cinque tappe dell’iniziazione, così come sono riportate da colui che a buon diritto è stato definito “ultimo Ierofante” del mondo antico, il divino Proclo (Theol. IV): come abbiamo visto, la prima fase è l’allontanamento di coloro che non possono ricevere l’iniziazione, “ci sono certe persone che sono allontanate dalla voce dell’Araldo, come coloro che hanno mani impure e voce inarticolata”. Prese in senso simbolico – filosofico, queste due prescrizioni possono così essere interpretate: la voce inarticolata è segno della mancanza del logos divino e della mancata protezione di Hermes; le mani impure indicano chi, nella sua presente incarnazione, pratica uno stile di vita non puro, ossia non filosofico (non distaccato dalle passioni, al modo di chi si è appunto purificato da esse: non si intenda mai questo distacco come una repressione delle passioni che, altrimenti, esploderebbero in modo violentissimo!) ed immerso nei fantasmi del mondo “che brilla di riflessi oscuri”, il “vasto mare della genesis”. “Mani impure” sta anche ad indicare che l’essere vivente non è in grado, data la sua condizione ricca di ignoranza ed oblio da cui non desidera affatto liberarsi, di ricevere l’aiuto degli Dei Liberatori per innalzarsi dalla sua condizione (“perché le mani sono simboli del potere anagogico”, cfr. Proclo, in Parm. I 666, 21): il Dio che giunge in soccorso “dà la mano” e non è lecito che chi è impuro si avvicini a ciò che è puro per eccellenza (e chi è malvagio – ossia, chi manca delle virtù etiche e del dominio della sophrosyne sulle passioni – è impuro, “mentre puro è il suo contrario” (Theol. I 10, 11-19) – l’essere umano deve dunque conoscere ed applicare lo stile di vita che è caratterizzato dalla massima purezza, e deve esercitare il suo logos alla ricerca della verità circa la reale natura delle cose: solo così potrà essere ammesso fra gli aspiranti iniziati. Dopo ciò, vengono i Misteri Minori, che prevedono da un lato le purificazioni: “è necessario che coloro che non sono stati allontanati dai Misteri vengano prima resi migliori attraverso certe purificazioni”, e dall’altro gli insegnamenti teologici: “dopo le purificazioni, può avvenire con successo la ricezione dei sacri riti”. Le purificazioni ci liberano dai “mali che vengono dalla sensibilità”, e, attraverso i rituali di purificazione, gli Dei “allontanano le sventure opera della generazione e della natura (genesiourgoùs-physikàs)” (Giamb. De Myst. I 13). Del resto, l’analogia con la Filosofia è fin troppo evidente: “la Filosofia è purificazione e perfezione della vita umana: purificazione dall’irrazionalità materiale e dal corpo mortale, e perfezione come ritrovamento della beatitudine (eudaimonia) propria, la quale guida alla somiglianza (homoiosis) con il divino” (Ierocle, Sui detti aurei di Pitagora, 1.1 – 2.1). In altre parole, come in tutti i riti teurgici, si rende il ricevente adatto ad accogliere le illuminazioni, gli insegnamenti divinamente ispirati. Come confermato anche da Clemente di Alessandria (Strom. V, 11, 70, 7-71): “Non e dunque fuori luogo che anche i misteri dei Greci comincino dalle purificazioni..dopo di queste vi sono i Piccoli Misteri che hanno il proposito di fornire un insegnamento e una preparazione ai misteri futuri, mentre i Grandi Misteri riguardano il tutto e in essi non si tralascia più di apprendere, contemplare e pensare la natura delle cose.” Questo infatti è, come abbiamo visto anche nel frammento citato all’inizio, il fine ultimo della Filosofia, la contemplazione e la conseguente beatitudine divina (eudaimonia, “invasamento bacchico”): “La terza parte è denominata epopteia (contemplazione). E la quarta, e questo è anche il compimento della contemplazione, è la legatura e l’imposizione delle corone.” A proposito delle corone, abbiamo un passaggio fondamentale da Ateneo (Deipn. XV 16): “Eschilo nel Prometeo Liberatodice chiaramente che è in onore di Prometeo che noi ci poniamo la corona attorno al capo.” Ora, dobbiamo considerare che Prometeo, letteralmente “colui che si prende cura”, è proprio colui che, prendendo le sacre technai da Atena ed Efesto, le consegna alle anime e, così facendo, suscita la facoltà conoscitiva insita in esse (dal momento che le arti sono “ad imitazione della realtà intellettiva”, cfr. Pr. Theol. Pl. V 24, 88). Non solo, Prometeo è anche colui che fornisce agli esseri umani la dialettica, base della vera Filosofia: “non alla maniera dei metodi dialettici dei Peripatetici, che non sono in relazione con la realtà, ma alla maniera del grande Platone… questa forma di dialettica è considerata essere ciò che guida all’unica causa di tutte le cose, il Bene, e che è stata portata all’umanità da parte degli Dei attraverso Prometeo, insieme al fuoco più luminoso.” (Pr. In Crat. II p. 1, 10–2, 4). Ricordiamo infatti i curriculadella scuola Neo-Platonica, che ponevano lo studio della logica aristotelica su un gradino assai più basso rispetto alla dialettica platonica e la consideravano come una sorta di esercizio basilare, per poter poi proseguire il percorso conoscitivo e di innalzamento spirituale: ad esempio, Plotino (Enn. I 3 [20]) sostiene che il filosofo debba iniziare studiando le scienze matematiche, purificandosi e perfezionandosi inoltre nella pratica delle virtù, e che poi si debba occupare “dei sillogismi”, ossia della logica aristotelica che è ben lontana dalla vera dialettica, che invece conduce all’infallibile contemplazione delle Forme. Del resto, la dialettica richiede una mente pura e quindi Giamblico, nel suo ‘programma di studi’ (Prolegomena X 26, 34–39), richiedeva che prima fosse letto il Gorgia, a proposito delle virtù politiche, ed il Fedone, a proposito della purificazione e delle virtù catartiche, e, solo dopo questi, che ci si avvicinasse al Cratilo, perché nel Cratilo vengono per la prima volta “presentati i principi degli enti e della dialettica, quando presenta insieme i nomi e le cose di cui sono nomi.” (Pr. In Crat. VIII p. 3, 4–6). Dunque, possiamo ben dire che l’imposizione e la legatura delle corone rappresentino il conseguimento del più alto stato raggiungibile attraverso le nostre facoltà conoscitive. Per ultimo, come abbiamo prima visto, viene la completa eudaimonia, la beatitudine perfetta: “Il quinto grado, che si produce da tutti questi (i precedenti gradi dell’iniziazione), è l’amicizia e la comunione interiore con la divinità e il godimento di quella felicità che sorge dall’intima relazione con le realtà divine… Platone chiama epopteia la contemplazione delle cose che sono apprese intuitivamente (ossia, non più attraverso dianoia ed episteme, bensì “nel silenzio unitario” attraverso l’illuminazione “che giunge dall’alto”), verità assolute ed idee. Considera la legatura e l’incoronazione come analoghe all’autorità che si riceve dai propri maestri, e il poter condurre altri alla stessa contemplazione (infatti, per analogia, i celebranti/sacerdoti indossano sempre le corone e sono mistagoghi nei confronti degli aspiranti). Ed il quinto grado è la più perfetta felicità che ne sorge e, secondo Platone, assimilazione alla divinità, per quanto sia possibile per un essere umano.” Concludendo la serie delle analogie fra Filosofia ed Iniziazione, riporto dei versi ‘profetici’, lasciatici da due Ierofanti, uno in Eleusi, l’altro in Atene:

“O iniziati, allora mi vedeste, quando apparivo sulla soglia del Santuario nelle notti bianche di luce… e dopo averne goduto fino in fondo, faccio ora risuonare grida divine.” (IG II2 3811)

“Lì aleggia un fulgore iperuranio, immortale, che prorompe dalla festa di un Tiaso, fonte di luce infuocata.” (Marino, Vita Procli § 28)

Veniamo infine al titolo del presente articolo: perché l’empio Giustiniano emise l’editto che, nel 531 circa dell’era volgare, decretava definitivamente, dopo lunghi anni di tensioni e continue provocazioni e prevaricazioni, la fine definitiva dell’Accademia? Ecco come ce ne dà notizia G. Malalas: “l’imperatore emanò un decreto e lo inviò ad Atene, ordinando che nessuno insegnasse filosofia o interpretasse le leggi… e decretò che coloro che seguivano credenze elleniche (ossia, pagane) non potessero avere incarichi pubblici.” Perché questo accanimento contro una semplice, seppur famosa e prospera, scuola filosofica? Perché, molto semplicemente, questa scuola, come abbiamo dimostrato, tramandava i Misteri ancestrali degli Elleni. Dobbiamo ricordare che, nel tormentato V secolo aev, Apollo, con Platone (come abbiamo detto, molti furono gli iniziatori ed i divini sapienti prima di Platone, però di costui tutti gli Antenati hanno sempre esaltato la preminenza e grandezza, che anche noi conosciamo bene, visto che, unico fra moltissimi, possediamo praticamente tutti i suoi scritti – una ‘coincidenza…!), diede inizio ad una “catena aurea” che riunisce in sé la sapienza degli iniziati, la Filosofia discesa dagli Dei, gli insegnamenti dei poeti divinamente ispirati – in una parola, quanto può essere considerato il ‘Genio Ellenico’ per eccellenza – “Quindi non credo che chi attribuisce la nascita di Platone ad Apollo disonori questo Dio, il quale fornì per mezzo di Socrate questo medico, quasi un nuovo Chirone, per le nostre maggiori passioni e malattie, e insieme ci fece sapere della visione e voce che si narra essersi manifestata ad Aristone, padre di Platone, che gli vietò di congiungersi con la sposa e di toccarla per dieci mesi. Tindaro di Sparta, riprendendo la parola, disse: è ben degno che si canti, e si dica del filosofo Platone “non mostrò di essere figlio di un uomo mortale, ma nato nel mondo da stirpe divina.” (Plut. Symp. VIII.1) Dunque, possiamo dire che Platone faccia certamente parte di quelle anime che si sono incarnate perché qui inviate dagli Dei, per il bene degli esseri viventi: “(la filosofia/iniziazione ai Misteri) posta in modo puro su una ‘base sacra’ e fondata perpetuamente presso gli Dei stessi, da quel luogo fu rivelata a coloro che nell’ambito della temporalità potevano trarne vantaggio, per il tramite di un solo uomo, che non avrei torto a chiamare ‘guida e sacerdote’ (n.b. frase tratta direttamente dai Misteri Maggiori) degli ‘autentici riti di iniziazione’…e delle ‘apparizioni integre ed immobili’…” (Theol. I 6, 1-10) Come appunto spiega perfettamente il divino Proclo, tale manifestazione aveva ancora un carattere troppo misterico, enigmatico, ed assolutamente inaccessibile a coloro che non potevano accedere ai “penetrali del Tempio”, un po’ come i responsi oracolari della Pizia, che necessitavano della ‘traduzione’ dei sacerdoti di Apollo; pertanto, nel corso del tempo (facciamo un ‘salto temporale’ dal V secolo aev agli ultimi secoli dell’Impero – un ‘salto’ che però, non dimentichiamolo, nasconde una fondamentale e profonda continuità), tale iniziazione si presentò all’esterno, per quanto possibile, “ad opera di alcuni sacerdoti autentici, che adottarono la vita che si confà all’iniziazione ai Misteri”, “interpreti della suprema visione”, “che esplicarono i precetti santissimi concernenti le realtà divine” (Theol. I 6, 17). Qui si intende appunto la continuazione della catena aurea, ad opera di sacerdoti-filosofi quali Plotino, Amelio, Porfirio, Giamblico, fino a giungere ai Teurghi ed iniziatori più divinamente ispirati: Plutarco – archiereus dell’Attica, e sacerdote di Dioniso ed Asclepio; suo nipote, Nestorio il Grande – Ierofante e Teurgo; il nipote di quest’ultimo, Plutarco, maestro di Siriano e Proclo, la cui figlia fu la celebre Asclepigeneia, che trasmise tutta la sua scienza sacerdotale e teurgica al grandissimo Proclo: queste erano le “salde fondamenta” dell’Accademia Ateniese. (cfr. Athanassiadi (1993 b) p. 29 per l’albero genealogico). Dopo la chiusura e/o il saccheggio della maggior parte dei Templi, questa era la ‘casta’ sacerdotale che resisteva tenacemente in Atene, che apertamente sfidava il governo “tifonico” dei cristiani-atei, coloro che “avevano distrutto ed abbattuto il divino che è in noi e l’avevano imprigionato nel materiale e disgraziato, ‘gigantico’ e titanico, carcere.” (cfr. Athanassiadi, “Persecution and Response in Late Paganism: The Evidence of Damascius”).
Come sappiamo, i galilei impazziscono per le profezie rovinose, che annunciano la fine e la sofferenza, chiaro segno che non hanno alcuna solida base teologica e neppure razionale; al contrario, è ben diverso il messaggio che ci hanno lasciato i Maestri dell’Accademia e gli Ierofanti, un messaggio colmo di quella “Speranza portatrice di fuoco” che già avevano annunciato gli Dei negli Oracoli: ricordiamo sempre il fato del gigante Eurimedonte “che rovinò il suo popolo avventato e alla fine perì egli stesso” (cfr. Eunap. VS vi 11.2 and Odissea vii 59-60). I Maestri erano certi, a ragione (come conferma anche, fra gli altri, il Kalki Purana), che il dominio degli atei sarebbe stato spazzato via, presto o tardi, come sempre avviene quando le forze dei giganti minacciano di prendere il sopravvento e sovvertire l’ordine cosmico, e che il modello migliore, quello della sophrosyne, avrebbe nuovamente trionfato, facendo così in modo che la Sapienza della Tradizione si diffondesse nuovamente “fino ai confini estremi del mondo civilizzato” (cfr. Ierocle (n. 1), 214 (172b). L’esempio degli Antenati, degli iniziati e mistagoghi, è pertanto chiaro e può essere perfettamente sintetizzato in queste parole: vivere in modo puro “conducendo quella vita beata che compiace gli Dei, devoti alla filosofia e alla venerazione degli esseri divini” (cfr. Damascio EP 95).
Concludendo, le leggi emanate dall’empio Giustiniano, ai tempi del sapiente Damascio, avevano il solo scopo di estinguere l’insegnamento della Filosofia in Atene – la Città che è “presidio della Filosofia” – perché l’Accademia era l’ultimo baluardo della Religione dei Padri, dove, a dispetto dell’asebeiadilagante, si continuavano a venerare gli Dei e ad iniziare numerosi nuovi “amanti dello spettacolo della Verità”. Damascio era persona, come tutti i suoi predecessori, che non accettò mai compromessi con l’empietà, e mantenne sempre una profonda coerenza, soprattutto in materia religiosa, ponendo sempre la Verità e gli Dei al primissimo posto: “nulla nell’essere umano è così importante quanto una coscienza pura. Un uomo non dovrebbe dare molta importanza ad altre cose se non alla Verità – non il pericolo di una lotta incombente, non un’impresa difficile da cui uno fugge impaurito…” (Dam. Vita Is. 146B) In definitiva, cosa fecero i Maestri, qual’ è l’esempio che noi oggi dobbiamo seguire? Quello che fece la sacerdotessa Aconia a Roma: mantenendosi puri e praticando solo la vita filosofico-religiosa, per quanto ciascuno ne è in grado, ricordare che “bello è il mistero disceso dagli Immortali” e riconvertire così coloro che si sono persi sulla via di kakia, seguendo le illusioni terribili dell’empietà. Un solo esempio, lampante: i due Alessandrini, Epifanio ed Euprepio (cfr. pace PRLE ii, s.v. Epiphanius, 2), che Damascio fece iniziare presso le “élites pagane” e che divennero poi rispettivamente sacerdote di Osiride ed Aion il primo, e di Mithra il secondo – costoro, proprio come l’Imperatore Giuliano dopo i suoi incontri con i sapienti e gli iniziatori ai Misteri, divennero πολύφωνοικήρυκες, ardenti araldi della Sapienza Ancestrale.
La Via è stretta – perché l’amante della Verità e della divina Sapienza segue sempre il detto pitagorico “non camminare sulle vie ampie”: “il logos è detto essere un sentiero perché il filosofo, seguendo la massima pitagorica, non cammina sulle vie ampie.” (Dam. In Phd. I § 101) – ma è sempre assolutamente percorribile, anzi, la vita vissuta all’insegna della Pietà religiosa (eusebeia) è l’unica via per giungere alla vera e completa felicità, a quell’eudaimonia e a quell’estasi bacchica, cui velatamente alludono anche i venerabili Oracoli: “ciò che determina i frutti della contemplazione dell’intelligibile e che dà misura alle anime, avendo la sua sussistenza nell’intelligibile, da lì fa risplendere su di esse il carattere della beatitudine.” (cfr. Pr. Theol. Pl. IV, 17, 10). In altre parole: dato che, come hanno insegnato i Maestri, da un lato gli empi saranno spazzati via per far posto ad una nuova “età cronia” (perché Crono è il puro Nous), e dall’altro la benevolenza degli Dei e delle anime liberate non consentirà mai che i mortali siano privati degli strumenti di miglioramento e liberazione, risulta evidente l’attualità del messaggio che proviene dalla catena aurea dell’Accademia: “avendo colmato, secondo l’Oracolo, ‘di amore le profondità dell’anima’ (fr. 46) – dal momento che non è possibile ‘ottenere un aiutante migliore di Amore’ nel cercare di impossessarsi di questa dottrina… esercitarsi “nella verità che giunge passando per ogni dove”… sollevare lo sguardo dell’intelletto (to noetòn omma) verso quella che è realmente verità in sè (cfr. le parole di Hecate stessa: “Io ti schiuderò l’abisso noetico, ma tu alza bene tutti i tuoi occhi al cielo!”)… porsi saldamente accanto alla stabile conoscenza della realtà divina e non aspirare più ad altro se non a contemplarla… e con pensiero tranquillo e forza di una vita infaticabile (ancora una volta, virtù etiche, pre-requisito fondamentale per l’iniziazione)… aspirando alla luce divina, essendosi fatto scudo di questa forma al contempo di attività e di tranquillità” (Theol. I 11, 17-27), diventare iniziati ed “elargitori”, vivere con profonda giustizia onorando gli Dei, potendo così nutrire “le più dolci speranze” anche per l’aldilà ed il destino dell’anima.
“Perciò allude anche al verso orfico che dice: chiunque di noi non è iniziato, come in un pantano giacerà nell’Ade; l’iniziazione è infatti il furore bacchico delle virtù; e dice:
Portatori di tirso molti, ma invasati dal Dio pochi,
…e infatti siamo legati alla materia come i Titani a causa della grande divisione (grande infatti il mio e il tuo); siamo eccitati come gli invasati dal Dio; perciò riguardo alla morte diventiamo più profetici, e il protettore della morte è Dioniso, perché lo è anche di ogni furore bacchico.” (Olimp. In Phaed. 68c p. 48, 20)