Testo redatto da Daphne Varenya Eleusina e pubblicato su EreticaMente Nemesi di Ramnunte – copia romana dell’originale statua di culto di Nemesi a Rhamnous, in Attica. Napoli, Museo Archeologico In primo luogo, devo ammettere che scrivere questo articolo era assolutamente necessario, soprattutto per amor di completezza: di fatto, fin dalla Conferenza, organizzata a Roma da EreticaMente ed altre pregevoli realtà lo scorso 8 Novembre, ho avuto la netta sensazione, se così si può dire, di non aver affatto portato a compimento tutto il discorso su Dike e su questa “Giustizia degli Dei che hanno l’Olimpo”. In effetti, in quell’occasione ho cercato, per quanto possibile, di approfondire la conoscenza della forma più universale di Dike, ossia di Colei che, come avevamo visto, è “compagna del Demiurgo del Tutto” ed è pertanto ‘figlia’ della “Legge di Crono”. Avevamo altresì passato brevemente in rassegna le considerazioni dello “Straniero di Atene” a proposito delle leggi teologiche fondamentali, della parte vitale della Giustizia in esse, e del modo in cui tutto ciò gioca un ruolo essenziale nel percorso di discesa ed ascesa delle anime individuali – ossia, in che modo gli Dei sconfiggono kakia nel Tutto ed anche applicano alle anime le “misure di Dike e le sue norme”. Questi, in estrema sintesi, i temi che mi ero riproposta di illustrare in quell’occasione, soprattutto affidandomi agli insegnamenti di Orfeo e di Platone – da quei ragionamenti era emersa appunto la bellissima forma universale di Dike. Eppure, sappiamo benissimo che, data una Monade, è certo che vi sia anche una ‘serie’ che discende dalla sua propria Fonte. Pertanto, così come dalla Legge Cronia si diparte una catena di ‘Nomoi’ che arrivano fino a noi, nello stesso modo, a partire dalla Dike universale deve discendere certamente un’altra forma di questa Dea, questa volta una forma encosmica. La Giustizia, infatti, è sì, da un lato, “figlia di Nomos ed Eusebeia” e “compagna del Demiurgo”, ma dall’altro è anche una delle Horai, “figlie di Zeus”, la sorella di quel “Buon Governo” che vorremmo rivedere anche fra i mortali, come sarebbe lecito aspettarsi se i mortali tornassero a volgersi agli Dei. Ebbene, dal momento che sappiamo anche che i Teologi della Tradizione non si sbagliavano su certe questioni (visto che le ‘differenti versioni’ di un mito rimandano appunto a realtà differenti), è assolutamente necessario, come dicevo poco fa, tentare di indagare ed approfondire la questione, “mettendoci alla prova” ed interrogando direttamente i Maestri a proposito di quest’altra forma di Dike e a proposito delle varie ‘discese’ del Nomos divino – fino a giungere ad una ‘scoperta’ antichissima ma anche estremamente attuale… Un primo indizio nella nostra ricerca lo possiamo trovare nei versi di un antico ispirato dalle Muse, Esiodo, il quale nella Teogonia (902 ss.) celebra Dike, insieme ad Eunomia ed Eirene (“Eunomia, Dike e la fiorente Eirene”) come una delle Horai, “le quali proteggono le opere dei mortali”, figlie della “brillante Themis”. Anche Pindaro (Ol. IX) loda Themis Soteira, “Salvatrice”, ed Eunomia, oppure onora (Ol. XIII) “Eunomia, e la sorella sua, l’incrollabile Dike, base delle città, ed Eirene che cresce insieme a lei, figlie dorate di Themis dal sapiente consiglio, dispensatrici di ricchezza agli uomini e decise a respingere la hybris.” Ora, la madre delle Horai è esattamente questo: “Themis, Colei che lega al Demiurgo gli stessi Dei e che non permette loro di separarsi dalla bontà del Padre”, come afferma il divino Proclo (in Tim. II 327). Themis pertanto, ed è questo che significa il suo essere madre delle tre Dee sopramenzionate, è la Causa delle Leggi Divine che governano il Tutto e le parti complessivamente, Causa perciò dei sacri Thesmoi e Nomoi che manifestano l’Intelletto puro – come nota assai giustamente lo scoliasta al passo di Esiodo: “Themis: il buono stato (euthesìa) di tutte le cose, perché si muovono secondo le norme (nomìmos)”. Da Lei emana nel complesso l’indissolubile ordinamento del Tutto, ordinamento che poi le varie figlie della Dea si ‘dividono’ e fanno procedere nel Cosmo, perché le Horai e le Moire sono, di fatto, Dee Encosmiche. E’ per questo che Themis, una volta unita a Zeus, genera la Triade delle Horai, a cui il vasto cielo è affidato e l’Olimpo, se si debba dissipare e calare la densa nube o farla discendere. Pertanto, “quando Socrate, che è solo un essere umano, afferma che non gli è concesso dalla Legge divina di lasciar passare un errore o di sopprimere il vero, ebbene, a maggior ragione, dobbiamo riconoscere che l’Intelletto Demiurgico non può fare altro che creare il bello e bandire il suo contrario – Lui che è congiunto a Themis, Colui di fronte al quale Themis è sempre presente.” (Proclo, in Tim. II 396 ss.) Da Zeus e da Themis promana, e discende fino a noi, la Giustizia/Dike Encosmica, la quale è vergine ossia, nell’interpretazione tradizionale, non accoglie in sé contaminazioni e non si mescola assolutamente a ciò che è inferiore (cf. la verginità di Atena, la quale non si unisce affatto con il divenire e difende l’ordinamento Intellettivo dalla mescolanza con la materia: questo è il significato della sua eterna verginità e il motivo per cui non si congiunge ad Efesto. Cf. Proclo in Tim. I 144). Dike è detta “Vergine” anche da Platone (Leggi XII 943e), anche perché, ricalcando come copia lo stesso aspetto della Dea, tutti i giudici di quaggiù devono essere assolutamente incorruttibili e puri, e simbolo di tutto questo è proprio la verginità. “Da Zeus generata”: ossia, poiché gli Dei sono ingenerati (cf. Theol. I 28 “Il carattere ingenerato degli Dei”), questo “essere generata” indica in modo particolare che discende dalla serie paterna. Così, proprio come Atena, Dike è vergine e caratterizzata dall’essere ‘generata’ da Zeus, e pertanto pone limiti, e protegge le azioni conformi al limite ed al “Giudizio di Zeus … perché Egli è il Legislatore del Cosmo, come Arconte e Re del Tutto”. Principio meravigliosamente espresso alla fine delle Coefore (v. 948 ss.), dal canto del Coro: “lo ha preso per mano la vera figlia di Zeus – che noi mortali Dike chiamiamo, cogliendo nel segno – … E’ Lei – Dike – che il Lossia, sovrano in Parnaso, dal suo antro profondo dentro la terra, Lei pura da inganni, proclamò che con l’inganno era stata oltraggiata …” “Vera figlia di Zeus” è un’espressione estremamente significativa, in quanto mette in luce che la Giustizia, Δίκη, è nel vero senso della parola, “figlia di Zeus”, visto che Δίκη etimologicamente deriva da Δι(ὸς)κ(όρ)η. “Onorata e rispettata dagli Dei che abitano l’Olimpo” (sempre la ricorrente espressione omerica, impiegata poi anche da Platone stesso nelle Leggi X 903 ss.) – Dike e gli Dei non sono mai disgiunti: ad esempio, nelle Coefore (v. 148) gli Dei sono palesemente invocati accanto alla Terra – la “Madre” chiamata a testimone da Solone (fr. 24 “la Madre grandissima degli Dei Olimpi, la Terra nera”) – e appunto a Dike: “a noi invia qui sopra ogni bene, con l’aiuto degli Dei, della Terra e di Dike che conduce alla vittoria.” Dike che, fra le altre cose, denunzia la mente degli uomini ingiusti al Padre, come dice appunto Esiodo (Erga 258 ss.): “tosto sedendo presso il padre Zeus Cronide, Ella rivela i disegni degli uomini ingiusti.” Segno questo della Provvidenza Demiurgica del resto, poiché uno dei possibili significati del nome ‘Horai’ può appunto derivare dal “proteggere” (horeìn) ossia il “custodire” le opere, le vite ed i destini da ciò che è rovinoso e ‘contro-natura’. Del resto, è “onorata dagli Dei” da un lato proprio perché gli Dei agiscono sempre secondo le norme della Giustizia, e dall’altro perché tali norme prevedono appunto l’assegnazione a tutti del dovuto secondo il merito, come dice il commento a questi versi: “in quanto è Lei che a tutti assegna secondo il merito, il che è particolarmente caro agli Dei.” (schol. Erga 257) “Questa legge (nomos) infatti impose il Cronide agli umani … agli uomini diede la Giustizia, che di gran lunga è il più eccellente dei beni.” (Esiodo, Erga 279) Sostanzialmente, fra le altre cose, Dike è il bene più eccellente anche perché, come affermano tutti gli Antichi e come hanno sempre dimostrato i fatti storici, alla lunga ha sempre la meglio sulla “tracotante violenza”: infatti, la Giustizia, anche se inizialmente si trova in condizione d’inferiorità (gli Elleni contro le orde dei barbari; gli aristocratici contro la massa del demos, colmo appunto di hybris, etc.), alla fine brilla compiutamente e mostra tutta la sua superiorità rispetto all’empia tracotanza, rivelando così il suo potere a tutti, a coloro che la seguono così come a tutti coloro che la offendono. E’ esattamente questo che insegnano i versi di Esiodo: “mostrandosi la Giustizia sotto due aspetti, quello di Dea e quello di azione da Lei derivata, come Dea Esiodo la chiama Dike, e anche Vergine, ora invece Giudizio e Pena (κρίσιν / ποινήν), come quando dice: Zeus Cronide dalla vasta voce riserva loro l’opera della Giustizia.” (schol. Erga 217) Come si era detto, questo principio è legato alla Provvidenza Demiurgica, proprio perché Themis lega tutti gli Dei, a maggior ragione sua figlia Dike, alla Bontà del Padre – e dunque, è per questo che il Divino esige delle ‘pene’ per le offese contro Dike e per cui la Dea stessa, nel suo aspetto di ‘giusta conseguenza’, diviene la ‘Pena’ di per se stessa per colui che l’ha tradita con il suo contrario, la violenta empietà. Perciò, essendo Dike amata dagli Immortali, risulta evidente che la ‘Pena’ più grande è proprio la separazione dagli Dei, il che viene perfettamente spiegato in tal modo: “ad essi la Terra produce: a coloro che sono cari agli Dei. Costoro sono quelli che vivono secondo Giustizia, ai quali dice, invitando alla vita virtuosa, che anche gli eventi derivanti da tutte le cose obbediscono.” (schol. Erga 237). Anticipando un poco il successivo discorso sul Nomos, possiamo dire che è assai lecito pensare che, nella sua celebrazione di Eracle (Nemea I), Pindaro intendesse indicare proprio il fine supremo della perfetta attuazione della “volontà di Zeus” nel Cosmo, infatti: “Tiresia, il profeta unico ed infallibile di Zeus altissimo. E lui narrò … le belve grandi, ignare di giustizia, che avrebbe ucciso sulla terra … e disse che avrebbe dato la morte più ostile a uomini usciti dal cammino dei giusti, sazi d’orgoglio [si noti che Eracle è stato spesso celebrato proprio come “benefattore dell’umanità” sia perché ha liberato la terra dai mostri ‘contro natura’, per così dire, sia perché ha restaurato il culto degli Dei abbattuto da “uomini empi”, cf. Eur. Her. 851 ss.] … poi avrebbe avuto riposo dalle fatiche grandi, una pace ininterrotta nel tempo, una ricompensa unica nelle case felici, e avrebbe accolto la sposa fiorente, Ebe, sarebbe stato vicino a Zeus Cronide, avrebbe lodato la Legge santa (σεμνὸν νόμον).” E’ esattamente questo il modo di vedere la questione anche per il religiosissimo Eschilo, anzi possiamo dire che egli segua direttamente Pindaro come poeta divinamente ispirato, appunto il cantore di Eracle che loda la “santa Legge” accanto a Zeus: pertanto, anche in Eschilo, come era lecito aspettarsi del resto, la stessa divinità che presiede alla Giustizia Encosmica è di fatto anche quella che custodisce il rispetto della Giustizia nell’individuo e fra le mura della città. Nelle Supplici viene spesso in luce questa ‘radice comune’, Giustizia nel Tutto e Giustizia nelle vite dei mortali: gli Dei sanno ciò che è giusto ed odiano la hybris (v. 78-81); Zeus è sempre veritiero e sempre si compie la volontà di Zeus (v. 90 ss.), perché si compie certamente l’atto “se è stato deciso dal cenno di Zeus: e ovunque sfolgora, anche nell’ombra, compiendo le sorti delle genti umane. E getta giù dall’alta torre delle loro speranze i miseri mortali, senza armarsi mai di violenza (bia): senza sforzo avviene ogni atto divino … ma volgi ora lo sguardo a questa hybris!” Poco dopo (v. 145) ritorna ancora la “figlia di Zeus”: Dike, “l’indomata”, che è ben fissa sui fondamenti venerati del suo culto, la quale sempre protegge i suoi alleati – infatti, il consiglio del Coro (v. 395) è: “tu scegli per alleata Dike, e decidi di onorare gli Dei.” E così continua il canto di questo Coro (v. 405): “su tutto ciò vigila Zeus che è imparziale e spartisce davvero, secondo giustizia, punizioni ai malvagi e protezione sacra a chi rispetta le leggi.” Ebbene, il perfetto compimento della Giustizia fra i mortali è pari al culto degli Dei (v. 418) e si condanna aspramente la violazione di qualsiasi forma di Giustizia, in quanto Giustizia, ancora una volta, “da Zeus discende” (v. 437), e Zeus è “sovrano dei sovrani, fra i Beati beatissimo, fra le perfette potenze perfettissimo”, il quale allontana da coloro che hanno “altari puri” la hybris dei mortali che non rispettano gli Dei e tutte le nefaste conseguenze che essa comporta necessariamente (v. 525 – 576). Pertanto, Eschilo sottolinea a più riprese che il vero diritto presso i mortali discende da quello divino: quando si annuncia che il popolo ha ratificato i decreti per le Supplici, si ricorda di pari passo che il popolo ha sì votato all’unanimità ma che la giusta decisione è discesa da Zeus stesso: “è Zeus che ha deciso in favore di questo esito” (v. 624), al che il Coro non può che naturalmente augurarsi che “la città prosperi nella venerazione del grande Zeus: Zeus degli ospiti che per antica Legge dall’alto regge il fato.” (v. 670 ss.) Ora, tutto ciò si fonda sui thesmoi Dikas, i decreti divini della Giustizia, che appunto devono discendere fino ai mortali ed essere da questi accolti: non dimentichiamo infatti che la trilogia (Agamennone. Coefore, Eumenidi) si conclude con il canto trionfale della perfetta Giustizia fondata dalla divinità su quel che, a buon diritto, è stato definito “il presidio dell’Areopago”. E’ infatti Atena a fondare un’istituzione “valida anche nel tempo a venire” (Eum. 483 ss.), ossia non condizionata dal mutare dei tempi, non soggetta alle vane opinioni, bensì stabile e sempre certa in quanto riflesso diretto nel mondo dei mortali della Legge universale di Giustizia che l’altissimo Zeus, l’Intelletto Demiurgico stesso, ha voluto per tutto il Cosmo. Fondamento della vera felicità dello Stato, come testimonia il Coro (Eum. 539 ss.), è così il rispetto dell’altare di Dike: “dall’empia follia nasce sicura violenza; da una mente sana, invece, nasce colei che a tutti è cara, che tutti si auspicano: la felicità. Per tutto questo ti dico: onora l’altare di Dike”, che non venga mai “calpestato con piede sacrilego” per brama di guadagno e vantaggi personali, perché chi trasgredisce le norme divine regolatrici della vita “e si procura una caterva di beni alla rinfusa, con prepotenza raccolti, col tempo ammainerà la sua vela … quando ormai sarà preso nel vortice ineluttabile: e ride il Demone per l’uomo irruento che non può più vantarsi di fronte all’irrimediabile …”. Al contrario, la città che veramente diventa “il presidio degli Dei sulla terra, custodia e splendore degli altari degli Dei dell’Ellade” (Eum. 916 ss.) venera Dike in modo speciale, e proprio per questo, con il significativo patrocinio di due divinità che incontreremo anche in seguito (Atena ed Apollo – Atene e Sparta, Solone e Licurgo), ottiene la diretta protezione delle venerabilissime Moire (“il coro delle inamovibili Moire” cf. Proclo, Inno a Helios) – ricordiamo del resto che le Moire sono precisamente le altre figlie di Themis, ossia “Ananke rappresenta la sola divinità che governa il Fato … corrisponde esattamente alla divinità che è Themis per i Teologi” (cf. Theol. VI 23) – le Moire che così celebra il Coro (Eum. 961 ss.), in modo estremamente bello ed eloquente, dopo aver ricordato le sventure che congiuntamente scacciano: “questo garantite anche voi Dee, voi Moire che ci siete sorelle, figlie di nostra madre: voi potenze divine (Daimones) che portate giustizia ed in ogni casa condividete le sorti, sempre incombenti, ovunque giustamente presenti, voi fra le Dee le più onorate.” Concludendo in parte questo tema, una breve analisi di alcuni versi di una tragedia che gli Ateniesi ebbero modo di apprezzare, con ogni probabilità, proprio alla fine della guerra del Peloponneso (probabilmente nel 405 a.e.v.), le celebri Baccanti: “avanza lentamente ma tuttavia fedele la potenza divina: raddrizza dei mortali quelli che onorano l’empietà e con forsennata opinione non esaltano la potenza degli Dei.” (v. 882 ss.) Il che rimanda direttamente a Pindaro (X Nemea), nei cui versi si afferma precisamente che gli Dei rimangono sempre fedeli alla misura della loro Giustizia che è regolatrice del Tutto, e che il Divino si preoccupa sempre di ‘raddrizzare’ le follie delle opinioni umane, “follia” perché dimentica appunto di Dike e dell’Eusebeia – azione divina voluta da Zeus, come canta anche Esiodo nel proemio degli Erga: “secondo il volere del grande Zeus. Perché facilmente dà la forza, facilmente piega il forte … facilmente raddrizza il tortuoso ed inaridisce l’orgoglioso … Porgimi orecchio, guarda, ascolta, dirigi secondo giustizia le leggi” Ora, questa ultima espressione viene direttamente dall’Odissea (XII 323), ed è lì riferita al Sole “che tutto sorveglia e tutto ascolta”, mentre qui è rivolta a Zeus – sulla relazione fra Zeus, Helios e Dike, assai eloquente: “si dice che, avanzando dal centro della sfera del Sole verso il Tutto, Dike diriga tutte le cose”, a riprova della posizione encosmica di questa forma della Dea (cf. l’articolo sul “Tema del Demone personale”). L’azione di Dike si esplicita fra i mortali grazie al Nomos Encosmico, applicato dai governati che “discendono da Zeus”, oppure “dal Cielo” per usare l’espressione di Macrobio (cf. “in che senso si deve intendere che i reggitori delle istituzioni politiche sono scesi dal Cielo e che lì ritorneranno” Macr. Comm. al Sogno di Scipione I 9) – e questo lo dimostrano in modo eccellente i versi di Solone (fr. 24): “con l’imperio di Nomos, conciliando Violenza e Giustizia, questa opera io compii e punto per punto perseguii, come avevo promesso ed i thesmoi ugualmente per gli ignobili e per i nobili io incisi, applicando a ciascuno diritta Giustizia.” Questa è precisamente l’attuazione di Dike fra gli uomini, e così Solone, non solo come governante ma anche e soprattutto come mortale estremamente religioso e devoto, si considera – a ragione – un sacerdote e, se così si può dire, un ministro del Nomos stesso, del Nomos eterno che esprime nel mondo la rettissima misura e “l’ampia via” della Giustizia, un ideale etico che non può in alcun modo essere separato da quello religioso – il suo è quindi Νόμος Δίκης, Legge di Giustizia “figlia di Zeus”. Non certo per caso, quindi, in questo frammento soloniano ed in altri suoi carmi, ritorna sempre l’idea di una strettissima relazione fra Nomos ed Eunomia (da non dimenticare che Eunomia è appunto sorella di Dike stessa) – ad Eunomia si contrappone Dysnomia, la quale anche in Esiodo (Theog. 230) è sorella di Ate e figlia di Eris: sono esattamente quelle forze che Eunomia deve bandire e debellare dallo Stato affinché sia realmente un kosmos, un Tutto ben ordinato, ancora una volta, immagine del Cosmo stesso, in cui tutte le parti cooperano e sono legate insieme secondo la “giusta proporzione” in vista del Bene e, di conseguenza, della Felicità del Tutto stesso. Eunomia così si serve dell’eterna potenza del Nomos divino per debellare la Dysnomia – che non è semplicemente ἀνομία, assenza di leggi, bensì proprio l’opposto di Eunomia, ossia un complesso sì di leggi ma in contrasto con Dike, leggi che non si basano sulle “sacre fondamenta di Dike.” Così, fin da Omero (Od. XVII 485 ss.), Eunomia è sempre stata anche opposta alla hybris, la quale è apertamente odiata dagli Dei: “anche i Numi … s’aggirano per la città, per notare se gli uomini vivono con tracotante violenza (hybris) o giustizia (eunomia).” Del resto, come sempre, i versi di Pindaro sono assai efficaci ed esplicativi: “Oggi l’anno è compiuto. Sono giunte a Tebe che ama i cavalli le Horai nate da Themis; e recano per Apollo i serti che Egli ha cari ed i conviti. Ed il Dio incoroni la sua gente di saggezza ed eunomia, come di fiori dalla lunga vita.” (Peana fr. 1, per i Tebani). Anche in questo possiamo apprezzare sia la continuità sia l’assenza di fratture realmente tali nel kosmos greco in senso generale: il predominio di Nomos, che si fonda su Dike, la quale, a sua volta, si fonda su Themis che è sempre presente di fronte a Zeus, ed è in strettissimo rapporto anche con Apollo – tutti temi carissimi alla poesia e all’azione politica di Solone – li ritroviamo infatti anche nelle rhetrai di Sparta, le leggi sì di Licurgo, ma soprattutto di Apollo. Invero, le rhetrai sono εὔθειαι, diritte, rette disposizioni normative sancite dal fondamento divino dello Stato: “ascoltarono Febo e da Pito riportarono in patria il responso del Dio – voce infallibile: ‘reggano il consiglio i re augusti, responsabili di Sparta, città amata, ed i consiglieri anziani, e poi quelli del popolo, e discutano secondo le rette leggi, per deliberare il meglio ed agire con giustizia’ (ἕρδειν πάντα δίκαια)” (Tirteo fr. 3 a-b) Queste sono pertanto anche le basi della celebre costituzione spartana, e certamente non stupisce qui la presenza di Apollo, in un certo senso speculare a quella di Atena nella città che porta il nome della Dea: come abbiamo visto, la verginità di Atena rimanda anche alla purezza ed alla mancanza di contaminazione – la quale è invece sempre causata dalla hybris e dalla conseguente dysnomia, proprio quella che Solone cercò di combattere. Perciò, Zeus ‘della città’ e la stessa “Signora di Atene” danno forma anche alle leggi e alla struttura stessa dello Stato Ateniese, una forma giusta cioè “secondo natura” ossia secondo l’Intelletto (Stato Ateniese ‘originale’, non quello corrotto che seguì e che, infatti, non aveva alcuna sanzione divina). Il parallelo, la necessaria relazione, fra Intelletto, ed azione che sorge dall’Intelletto, e Nomos divino è magnificamente espressa dal grandissimo Eraclito (fr. 71): “coloro che parlano con intelligenza (=conoscenza intellettiva) devono farsi forti con l’intelligenza a tutti comune, come una città con il Nomos, ed ancora più fortemente. Ché tutte le leggi umane sono nutrite da una sola Legge divina: domina tanto quanto vuole, basta per tutto e per tutti, ed è superiore.” Il che equivale precisamente a dire che i nomoi della città si irradiano dal Nomos divino, Nomos che siede appunto accanto a Zeus: “fa sedere Nomos in trono di fianco a Lui, come pure Orfeo – infatti, presso Orfeo, è obbedendo ai consigli della Notte che Zeus fa sedere Nomos accanto a sé” (Orph. fr. 160 Kern). Così, dal “Politico del Tutto” (che è anche l’Intelletto Demiurgico) discende anche Apollo, il cui segno distintivo è proprio l’assenza di contaminazione e la distruzione del ‘disarmonico’, ed è anche Colui che ha esattamente la peculiarità di “rivelare ai mortali la volontà del Padre”, in questo caso le rhetrai di Sparta, grazie alle quali sarà possibile per i cittadini applicare la norma delfica: “Πρᾶττε δίκαια”, “Compi azioni giuste/ sii giusto in ciò che compi” (Legge Delfica n° 27). A proposito di Zeus ed Apollo nel contesto della ‘scienza politica’, si mediti su questa bellissima analisi del divino Proclo: “questo Poeta non è altri che il Dio grande cooperatore del grande Politico, ed autenticamente Educatore, che guarda all’Intelletto del Politico. Infatti, il Politico del Tutto è Colui che si celebra come il grande Zeus…d’altra parte, Colui che coopera insieme a lui a tutto l’ordine che è nel Cosmo … non è altri che Apollo, autore di imitazioni armoniche e ritmiche.” (Proclo in RP I 68-69) Ritorniamo quindi al ‘nomos‘ che, come abbiamo visto, deve essere senz’altro inteso, in primo luogo, come principio strettamente religioso della giusta autorità, ossia da Zeus ai governanti – ancora una volta, quella “conforme a natura” – la quale deve sempre essere operatrice e dispensatrice di Giustizia. Nomos deriva, senza alcun dubbio, dalla radice verbale nem- nella quale sono insiti i concetti di ‘distribuire’ ‘assegnare’: infatti, da questa radice viene anche ‘Nemesis’ (propriamente, la “Giustizia distributiva”), ma anche ‘Nemetor’ (letteralmente, “il Distributore”, anche tradotto con ‘vendicatore’, epiteto di Zeus in Eschilo, Theb. 485), così come appunto νόμος ed anche νομός (che, da Omero in poi, indica soprattutto “pascolo, zona assegnata’). Così, letteralmente ‘nomos‘ significa “ciò che è attribuito a ciascuno”, dal che deriva anche il fatto che alcuni canti, in particolare gli Inni in onore di Atena ed i canti ispirati dagli Dei o destinati a riformare i costumi, siano detti nomoi, perché “si dà ai canti questo nome di ‘nomoi‘ … perché vi si attribuisce a ciascuna parte ciò che le è appropriato.” (Proclo in Tim. II 355). Pertanto, riprendendo proprio i versi di Solone sopra menzionati, diventa chiaro che Nomos non deve affatto essere inteso semplicemente come il ‘costume’ o l’uso comune, oppure la semplice ‘legge umana’, bensì è “norma divinamente ispirata”, Legge di Dike, quella norma che, unica, può realizzare quaggiù l’Eunomia divina – il che corrisponde, per analogia, al canto delle Muse: “cantano danzando, e le leggi ed i costumi prudenti di tutti gli Immortali glorificano.” (Es. Theog. 66) Pertanto, come dicevamo, i nomoi di quaggiù, quelli che sono realmente “secondo natura”, sono esattamente un’emanazione del Theios Nomos di cui parlava Eraclito, quello di cui si “nutrono” le giuste leggi della polis. Intermedio fra il Theios Nomos e le leggi dello Stato è il Nomos che siede accanto a Zeus come suo “paredro” (“Nomos è paredro di Zeus, come dice Orfeo” Proclo in Alc. III 70), quella Legge Cosmica che viene appunto cantata da Orfeo: “invoco la santa sovrana degli Immortali e dei mortali, Legge celeste che determina la posizione degli astri, giusto sigillo del pelago marino e della terra … custodisce la sicurezza della natura con le leggi, con le quali in alto guidando il vasto cielo essa stessa procede …” (Inno Orfico a Nomos, 64) – anche di questo Nomos dovrebbero effettivamente nutrirsi le leggi di quaggiù, poiché, come si è spesso notato, la costituzione dell’individuo e dello Stato devono essere analoghe a quella del Cosmo e perciò tale costituzione deve essere “nutrita” dalle stesse Leggi divine e demiurgiche. La serie della Legge è pertanto la seguente: in primo luogo, il Theios Nomos, quello di Crono ossia dell’Intelletto puro (cf. in particolare, Leggi IV, 713d-714a). Infatti, Proclo (Theol. V 30) usa esattamente la stessa espressione di Eraclito: Crono pone a capo (quindi, di rango superiore ai tre Dei) dei tre Cronidi il “Theios Nomos, principio causale della “distribuzione in base all’Intelletto”, per gli Dei e per tutte le entità successive.” Dunque, il Theios Nomos ha il suo primo regno al vertice dei Padri Intellettivi, e possiede lo stesso rango che ha Adrastea nel Luogo Sovraceleste delle tre Notti della Teologia Orfica – la differenza fra Adrastea e Nomos è che la prima permane nel dominio intelligibile, mentre il secondo procede delimitando tutte le misure dell’ordinamento intellettivo e diventando appunto, come si è detto, “paredro di Zeus”, ossia del “Politico del Tutto”. Meravigliosamente dunque si può notare che “l’imperio del Nomos” di cui parla Solone discende per gradi dall’Intelletto stesso e, discendendo proprio dal Theios Nomos, ha anche la funzione di ri-collegare interi Stati e tutti gli individui a Dike, agli stessi Dei e al Demiurgo stesso. Come avevamo anticipato anche proposito di Eracle, l’Eroe diventa pertanto colui che, dopo aver attuato il Nomos di Zeus sulla terra, fa ritorno proprio presso il Cronide, diventando anche l’esaltatore di quella Legge ed il Modello per coloro che, davvero eroicamente, devono attuare il Semnòs Nomos nel mondo stesso – la “forza” di Eracle non è quindi casuale, è diretta espressione della potenza del Nomos stesso e quindi di Zeus, anzi è espressamente un mezzo di Zeus per stabilire continuamente l’Eunomia nel Tutto e nelle singole parti. E’ così che l’azione umana può diventare un operare religioso, perché assolutamente disinteressato ed ispirato solo al bene del Tutto – detto in altri termini, l’azione umana non deve avere altro fine che l’applicazione delle norme di Dike, di Colei che è “vera figlia di Zeus”, essendo “il Cronide” sommo principio di ogni forma di Giustizia. Del resto, è questo il messaggio bellissimo e tragico/catartico che viene impartito dal Coro del Prometeo del religiosissimo Eschilo (v. 547 ss.): che mai vi sia un ritardo o negligenza nei confronti degli Dei, “mai, mai le mie parole siano empie” – Prometeo non si è invece curato della volontà di Zeus e troppo ha onorato i mortali rispetto agli Immortali, il che deve essere letto, in questo caso, come un aver nutrito una maggiore inclinazione verso l’aspetto effimero del divenire, il fuoco mortale, rispetto alla luce degli ordinamenti sovracelesti. Infatti, subito dopo il Coro lo compiange, affermando che nessuna gratitudine e nessun aiuto gli può giungere dagli esseri effimeri “esseri che durano un giorno … simili a fantasmi di sogno, una razza cieca che vaga incapace di vedere la luce” – identico il principio manifestato da Pindaro (Pyth. VIII) con i celebri versi: “siamo di un giorno … sogno di un’ombra è l’uomo. Ma se viene una luce che è dal Cielo, tutto si fa fulgore intorno agli uomini, il Tempo si fa dolce.” Pertanto, appartenendo la Legge divina all’ordine delle realtà eterne che perdurano sempre, nessun disegno umano può alla lunga averla vinta con la tracotanza, poiché “mai l’armonia decisa da Zeus, la volontà dei mortali può trasgredire.” (Prom. 552) Questa Διὸς ἁρμονία, la perfetta “Armonia di Zeus”, altro non è che il Nomos della Natura divina, quei “decreti fatali” di Heimarmene (di cui abbiamo spesso parlato), come attesta lo scolio al verso: “ha chiamato ‘armonia di Zeus’ la Legge della Fatalità.” Abbiamo così di nuovo la conferma di una concezione ‘armonica’ del Nomos stesso, in quanto giusta proporzione ed assegnazione e legame e concordia delle parti e del Tutto in vista del Fine comune – del resto, la Διὸς ἁρμονία è anche il numero 3, il “perfetto” (cf. Giambl. Theol. Pyth.) che, non certo per caso, è il numero sia delle Moire che delle Horai, discendenti dalla serie Intellettiva e dalla monade di Themis – Dea che, non dimentichiamolo, è così invocata da Orfeo (Inni Orfici, 79): “da tutti onorata, dalle splendide forme (esattamente come Dike), da Te infatti provengono gli onori dei Beati ed i santi Misteri.” La Legge armonica del Cosmo si fonda perciò su tutti questi Principi, cui le parti, ossia i mortali nello specifico, devono adeguarsi – da qui deriva precisamente la necessità di arrestare l’opera di coloro che con la tracotanza cercano di infrangere quei Thesmoi e quei Nomoi , i quali discendono da Zeus stesso e concedono, se accolti volontariamente, “tutti i beni” ai mortali. Penso sia opportuno concludere questa breve indagine (che, come sempre, non ha alcuna pretesa di completezza e deve piuttosto servire come ‘esortazione’ ad una continua ‘riscoperta’ e ricordo) con un esempio storico, anche per sfuggire all’accusa di non saper riportare sul piano ‘pratico’ le conoscenze trasmesse dai Maestri – ebbene, abbiamo menzionato la vicenda dell’invasione persiana, e abbiamo anche citato i versi di Eschilo a proposito della ‘risata del Daimon‘: ritorniamo ora a questo esempio e vediamolo all’opera nella storia. Come è noto, Pindaro (fr. 152 B) ha cantato il Nomos Basileus, la Legge divina che guida tutta la storia del mondo, ed ha mano assolutamente preminente e potentissima con cui ‘guida’ ossia conduce al giusto termine, le azioni – questo Nomos sovrano è manifestazione di Zeus e, d’altro canto, è anche espressione diretta della pura religiosità ellenica, la ‘fede’ (non quella cieca, bensì quella superiore persino alla Conoscenza, in quanto già la ricomprende tutta) nell’ordine del Cosmo che domina ogni tempo ed ogni divenire, la “santa Legge” lodata da Eracle, di cui abbiamo parlato prima. Infatti, questo Nomos Basileus è la “sovrana Legge” (il δεσπότης νόμος) che gli Elleni contrappongono ai barbari (Erodoto VII 101-104): è il Nomos divino che si è manifestato nel complesso di Riti e nella Tradizione della ‘libertà’ ellenica, la quale esige in primo luogo la virtù e lo spirito di sacrificio, di lotta e di completa abnegazione, e che impone tutta la propria potenza grazie al valore religioso che ha in sé – quando si parla di contrapposizione ai barbari, è questo il Modello che è loro opposto e che li può distruggere facilmente grazie alla potenza stessa di Zeus. Vediamo più da vicino cosa narra Erodoto: l’Ellesponto è appena stato superato dall’immenso esercito persiano, e Serse si sta preparando a gettare sull’Ellade il “giogo della servitù”. Allora, chiama presso di sé Demarato, l’esule spartano, ed il loro dialogo è memorabile proprio perché mostra nella storia che, come dice un detto famoso, ‘ride bene chi ride ultimo’, ossia, come abbiamo visto, il Demone. Infatti, Serse “rise” per primo, credendosi già vincitore con la sua hybris (103; 105), e questo è il riso folle che coglie i proci poco prima di ricevere ciò che meritavano a causa delle loro azioni (Od. XX 345): “e Pallade Atena ispirò ai proci inestinguibile riso, travolse loro la mente”. Pertanto il Nomos, “paredro di Zeus”, ‘discende’ nella storia dell’Ellade, la quale viene così dominata da questa sua legge immanente e sempre valida, legge che è appunto Nomos ma anche Sophia, Tradizione ed Azione – è il Nomos Basileus che diventa espressione della vera φύσις degli Elleni. Il tutto viene espresso in modo assolutamente magistrale in un passo giustamente celebre (104), e che merita di essere riportato come conclusione di tutto il discorso: ebbene, il Nomos degli Elleni, qualora incalzi la necessità o una grande lotta (un agone, propriamente detto) fa rifulgere la virtù dei singoli così come delle comunità e le conduce, in ogni caso, alla vittoria, “perché essi sono liberi, ma non del tutto: sovrasta loro una sovrana Legge, cui essi riverenti obbediscono molto più che a te (Serse) e ai tuoi. Essi fanno ciò che loro ordina, ed il suo ordine è sempre lo stesso: non permette di fuggire dalla battaglia neppure dinanzi ad una moltitudine di uomini, ma ordina di rimanere al proprio posto e di vincere o morire.” “Invoco la santa sovrana degli Immortali e dei mortali, Legge celeste che determina la posizione degli astri, giusto sigillo del pelago marino e della terra, che stabile, sempre estranea alle fazioni custodisce la sicurezza della natura con le leggi, con le quali in alto guidando il grande cielo essa stessa procede, e l’invidia non giusta a mo’ di sibilo spinge fuori; che anche per i mortali risveglia un buon fine di vita; essa sola infatti possiede il timone dei viventi accompagnandosi a pensieri rettissimi, sempre sicura, antica, molto esperta, che senza danno abita con tutto ciò che è legale, ma porta la pesante sventura a ciò che è illegale. Ma, beata, onorata da tutti, portatrice di felicità, da tutti desiderata, con cuore benevolo manda il tuo ricordo, ottima.” |