Piante sacre

 

Sulle piante della Tradizione Hellena

Lavanda
(Stoichàs, Lavandula stoecha)- chi non conosce questo fiore, chiamato teneramente 'spighetta'? Il suo inebriante profumo attira molti tipi di farfalle; i campi di lavanda in fiore sono sempre molto frequentati dalle api che, con il nettare dei suoi fiori, producono un miele delizioso, con effetti rilassanti. I fiori che si sviluppano in estate, sono le manifestazioni più espressive della pianta rispetto alle altre sue parti (però i rami secchi possono essere usati come un ottimo incenso, o come base per la creazione di incensi) e producono uno dei profumi più nobili che conosciamo: un senso di purezza e di quiete ci invade nel percepirlo.
Dioscoride fa risalire il nome greco dalle isole Stœchades (di fronte a Marsiglia), dove è diffusa-

La storia del suo uso risale ovviamente ai tempi più antichi: gli Egizi sapevano apprezzare il profumo del nardo, quello che oggigiorno chiamiamo lavanda, come abbiamo potuto dedurre dal ritrovamento di alcuni recipienti, estratti e riportati alla luce dalla tomba di Tutankhamon, che contenevano tra l'altro anche dell'essenza di lavanda. Anche nelle bende che avvolgevano le mummie sono state riscontrate tracce di questa sostanza. Elleni e Romani erano soliti profumare l'acqua del bagno con i suoi fiori ed è, infatti, dal latino “lavare” che deriva il suo nome; anche le vesti si lavavano con acqua alla lavanda, e nell’Inghilterra medievale, le lavandaie erano anche chiamate ‘lavenders’.
Oltre ad essere amata per le sue proprietà rinfrescanti e profumanti, Plinio il Vecchio la descrive come una delle erbe curative più utilizzate dell’epoca, perché la lavanda ha un incredibile effetto purificante e rilassante, e anche in ambito terapeutico questa qualità è assai apprezzata ancora oggi; anche un semplice tè fatto con i suoi fiori ha questo benefico effetto, e ha anche la proprietà di guarire il mal di testa da stress e la nausea- ricordiamo infatti che la lavanda, e il suo olio essenziale, è uno dei più antichi analgesici conosciuti.
La sua spiga è considerata un ‘amuleto’ per proteggere dalle disgrazie e un talismano per propiziare prosperità e fecondità. Il tradizionale utilizzo di pacchettini profumati di lavanda nei corredi delle spose è legato verosimilmente non solo alle sue note proprietà insettifughe e aromatizzanti, ma ha anche un significato più profondo, in quanto la lavanda è una pianta che esercita una particolare influenza sulla sfera femminile- da qui anche viene la credenza che sia una pianta afrodisiaca...

 

Camomilla
(chamaimelon, Matricaria Chamomilla)- quasi sicuramente la più antica e conosciuta erba medicinale, un vero dono degli Dei, che cresce anche nel Giardino descritto nelle Argonautiche Orfiche (di cui ci stiamo occupando da qualche tempo).
Il nome italiano di questo grazioso e benefico fiore deriva dal tardo latino chamomilla, adattamento del termine greco che si può tradurre con ‘piccola mela’, oppure ‘mela che cresce al suolo’. Plinio scrive: “Asclepiade loda molto l’anthemide. Alcuni la chiamano leucantemide, altri leucantemo e alti erantemo perché fiorisce nella primavera, altri camamelo perché ha odore di mela.” A causa del suo buon profumo, era anche spesso impiegata nella preparazione degli incensi.
Nell'antichità i giardinieri avevano l'abitudine di piantare della camomilla vicino a piante debilitate e sofferenti al fine di rafforzarsi e da qui probabilmente è derivato il suo significato di ‘forza nelle avversità’
E’ sempre stata raccomandata da medici e naturalisti, Ippocrate, Dioscoride, Galeno e Plinio ad esempio, con varie applicazioni (trattamento della cefalea, di stati ansiosi, disturbi renali ed epatici sono solo alcuni esempi…); Il suo nome classico "Matricaria chamomilla", da Matrix, “utero”, ci dice come essa sia stata fin dall’antichità il medicamento specifico dell’organo femminile, come si sottolinea appunto nel Corpus Hippocraticum, dove riveste una posizione di grande importanza.

Il Matthiolo nel 1573 scrive: “Dai sapientissimi d’Egitto è stata consacrata al Sole e riputata unico rimedio di tutte le febbri.” Essendo una pianta donata dagli Dei, associata al Sole, si è sempre considerata ad Essi gradita: in primavera si confezionavano ghirlande di camomilla con cui decorare le statue nei templi (soprattutto in Egitto).

 

Caprifoglio
Noto in Ellade come Climeno (klymenos; Lonicera caprifolium), il caprifoglio o piantaggine è una piantina deliziosa, i cui fiori hanno un profumo decisamente inebriante, e si può coltivare con facilità- da notare che fa parte del giardino descritto nelle Argonautiche Orfiche, citata per seconda, subito dopo l'asfodelo. Le capre sono ghiotte dei suoi ramoscelli, per questo la tradizione popolare l’ ha generalmente denominato ‘caprifoglio’.
Gli Elleni lo chiamavano periklymenon, da perikleio ‘circondo, chiudo da ogni parte’. Anche per questo motivo è detto ‘abbracciaboschi’, in quanto si arrampica, con il suo fusto molto flessibile, con spirali molto strette e sempre in senso orario, attorno ai tronchi di alberi ed arbusti, a volte anche rischiando di soffocarli- ma è anche detto ‘Madreselva’… in molte regioni, è significativo che abbia il nome di ‘dita della madonna’, perché ciò indica sicuramente un ‘prestito’ (=furto) da tradizioni ben più antiche…infatti in Sicilia ha il nome ‘Lupa du boscu’..
E’ pianta di Eros, e i suoi bellissimi fiori hanno proprietà propiziatorie durante le cerimonie matrimoniali. Questo particolare si è conservato nel nome del ‘linguaggio dei fiori’, in quanto viene definita ‘legame d’amore’, ed i suoi fiori profumatissimi (color avorio o rosso porpora) ne sono un chiaro simbolo.
E’ anche una pianta medicinale, ma le sue bacche sono velenose (‘purganti’, secondo alcuni); mentre il tè (più propriamente, il decotto) delle sue foglie, con o senza fiori, veniva consigliato già da Plinio e Dioscoride.. ed i moderni manuali di fitoterapia la definiscono “bevanda di conforto”, consigliato in alternativa al tè!

 

 

Styrax officinalis
L'arbusto (in accadico "baluhhu",in antico sudarabico "Ibny e in arabo "lubnà") che produceva in passato lo storace 'vero' delle antiche civiltà,è una delle piante più rare del Mediterraneo.La resina dell'albero adulto,molto aromatica e con un profumo simile al benzoino,essuda quando s'incide la sua corteccia. Per molti anni si è confusa con il nome di storace la resina di un albero molto differente,il "Liquidambar orientalis",detto appunto ambra (dall'arabo ambar) liquida o 'benzoino',che produce quindi lo storace liquido,ossia un particolare e specifico balsamo semiliquido. Quest'ultimo è un albero comune in Asia minore e in Siria.Lo storace 'vero' invece,ci dice Isidoro è un albero tipico dell'Arabia i cui ramoscelli,al sorgere della Canicola,distillano attraverso piccole cavità delle lagrime;che cadendo al suolo si conservano nella polvere della propria corteccia,mentre quelle che rimangono sui rami,pulite e biancastre,diventano fulve,rossastre a causa del Sole.Plinio,infatti ci racconta che il migliore è quello rosso e resinoso,da cui si ricava un liquido simile al miele....e furono proprio i Sabei (attuale Yemen) che, stanchi di cucinare con il legno odoroso degli alberi d'incenso e mirra,importarono dalla Fenicia la varietà più selezionata dello storace con cui appunto profumarono le loro case. Sia negli inni orfici che in un papiro magico,che insiste sulla somiglianza tra le oblazioni ed i sette pianeti cui sono destinate,l'offerta di Crono è appunto lo storace,il cui profumo è decisamente forte e buono.Anche le Erinni ricevono una combinazione di storace e polvere di incenso nel corrispettivo inno orfico...tra l'altro lo storace era destinato come offerta a Zeus,a Proteo,a Demetra eleusina,a Semele,ad Ermes e a Dioniso.Secondo il gesuita Kircher questo succo resinoso e pregiato (perchè raro) era raccolto ogni anno in Italia,fin dal '600 circa,proprio nell'attuale territorio di Tivoli insieme a manna e resina di terebinto,mentre per altri studiosi,lo 'styrax' tiburtino,diversamente,non poteva produrre lo storace,sia per alterazioni ecologiche avvenute nell'ambiente dei monti Lucretili,sia perchè inselvatichitosi rispetto alla specie originariamente importata dall'imperatore Adriano per i suoi giardini di Villa Adriana!"

 

Salvia
(horminòn; Salvia officinalis) Non ha bisogno di presentazioni, questa bella e generosa pianta aromatica, poiché penso sia ben nota a tutti. Il suo stesso nome botanico rispecchia le sue molte virtù: deriva infatti da ‘salvus’, ‘salvere’ oppure da ‘sozo’- in ogni caso, può essere a buon diritto definita “la pianta che conserva o salva la vita”, tanto che nell'ambito della Scuola Medica Salernitana le fu dato il nome di 'Salvia salvatrix'. Sempre da questa scuola fu coniata la domanda retorica: “Di che cosa morirà l’uomo che fa crescere la salvia nel suo orto?”.
Tracce di essenza di salvia sono state rinvenute sui bendaggi delle mummie in Egitto- non per caso ha conservato ancora oggi il significato di salvezza e immortalità. Elleni e Romani l’hanno sempre considerata un’erba cara e sacra agli Dei (in particolare a Zeus e Giove) e, pertanto, doveva essere raccolta con metodi particolari. La cerimonia della raccolta avveniva secondo un rito prestabilito: i prescelti, vestiti di tuniche bianche, lavavano ripetutamente la mano destra e i piedi, ed infine, con rispetto e solennità e senza usare strumenti di ferro, coglievano la pianta sacra agli Dei e indispensabile alla salute dell’uomo.

In un frammento di Eupoli leggiamo: “Prendiamo il nutrimento da selve di ogni tipo, divorando i teneri ramoscelli di abete e di corbezzolo e oltre a questi anche i germogli, il citiso e la salvia profumata…” Benchè nota fin dall'antichità, questo aroma stenta ad entrare in cucina, anche se è pur vero che Apicio la cita più di una volta, ma l'uso era del tutto casuale e senza convinzione, probabilmente perchè se ne stimavano molto di più la natura sacra e le virtù curative...

E’ un’altra di quelle piante che possono essere considerate una panacea, infatti scrive un moderno erborista: “Consultando un numero adeguato di erbari si scoprirà che ogni malattia nota all’umanità può essere curata con la salvia.” Plinio ricorda molti impieghi in ambito medico, e Dioscoride usava la decozione di salvia per curare molti problemi femminili (in Egitto si usava anche per favorire la fertilità, cosa ricordata anche da Aezio), inoltre usava le foglie anche nei bendaggi delle ferite- pratica in uso dai tempi di Ippocrate- e le consigliava come sicuro antidoto contro gli avvelenamenti e nella cura degli occhi; inoltre, mangiare tre foglie di salvia con un po’ di sale al mattino assicurava la protezione da qualsiasi veleno, e questa procedura manteneva anche la mente fresca e lucida per tutto il giorno e assicurava una memoria di ferro.

Per avere una produzione di foglie più grandi e più ricche di olii essenziali c’è un metodo infallibile: togliere le spighe da fiore alla loro comparsa. Le parti da utilizzare sono proprio le sommità fiorite che si raccolgono da maggio a luglio e le foglie che, invece, si raccolgono tutto l’anno.

 

Verbena officinalis
La verbena, Aristereòn-peristereon, hiera botane è una pianta sacra che fa parte del Giardino descritto nelle Argonautiche orfiche.
E’ una pianta decisamente non vistosa, ma incredibilmente sacra, tanto che ha i nomi di ‘Lacrime di Iside, Lacrime di Giunone, Demetria, Persephonion’; il suo stesso nome la lega a Venere, in quanto 'herba Veneris'. La verbena cresce ai margini dei boschi e nei luoghi sabbiosi, produce graziosi fiorellini di un delicato color malva dall’aroma tenue e delizioso- fiori che le api amano moltissimo..

“Santo chiamasi tutto ciò ch'è protetto e difeso contro l'ingiuria degli uomini.
La parola santo è derivata dalla voce sagem che significa verbena. Le verbene sono certe erbe che i legati del popolo romano sogliono portare per rendere le loro persone inviolabili, come i legati della Grecia portano quelle si chiamano cerycia." (Marcianus, lib. 4 Regularum)
Non solo, Simmaco riferisce che: “quasi alle origini della città di Marte nacque l’uso delle strenne per iniziativa di Tazio, che per primo prese dal boschetto di Strenia delle verbene di arbor felix come auspicio dell’anno nuovo”. In realtà con ‘verbena’ si indicava ogni ramo di arbor felix usato sia nei sacrifici sia per incoronare gli altari. A Roma si usava per purificare l’altare di Giove (e nelle cerimonie di purificazione in generale) e per le missioni dei Fetiales; tali verbene erano raccolte sulla Rocca Capitolina e Del Ponte commenta perfettamente: “E’ evidente che la particolare sacralità della zona deriva da tale specificità di contatto con il divino e le verbenae, le ‘erbe pure’ che conferiscono (col tramite significativo del rex) al padre patrato la sua dignità di rappresentante dello Stato romano nelle trattative, sono portatrici di un carisma che proviene dallo stesso Giove.”

Pianta veneratissima ovunque, tanto che Plinio ci informa che i Druidi la coglievano ritualmente: nel nord della Francia è tuttora conosciuta come 'erba della doppia vista', sia per le proprietà mediche, sia perchè i druidi ne bevevano un infuso, prima di profetizzare, in grado di facilitare la visione di realtà altrimenti nascoste. Ci sono delle regole per raccogliere una pianta tanto sacra: perchè abbia straordinari poteri la si deve raccogliere solo nel periodo in cui la costellazione del Cane è in crescita ( all'incirca il 18 luglio, più o meno nel momento della massima fioritura ), facendo in modo che non vedano questa operazione né il sole né la luna, e comunque sempre dopo aver offerto alla terra sacrifici come adeguata contropartita del preziosissimo esproprio.

La lista dei suoi usi medicinali è pressoché infinita, dal momento che Dioscoride, e sulla sua scia moltissimi naturalisti antichi, la riteneva un’erba miracolosa e una panacea in grado di curare tutti i mali. Detto in modo molto generale, la sua proprietà può essere riassunta dicendo che si tratta di un’erba che ripulisce dalle ostruzioni, calma e disinfetta. Alcuni, come dicevo prima, fanno derivare il suo nome da Venere, mettendo così in risalto le proprietà afrodisiache, confermate da Ippocrate- che raccomanda il decotto di verbena per curare la sterilità delle donne- e Galeno. Le sue foglie e i suoi rami erano anche usati per purificare e profumare gli ambienti; il decotto di verbena veniva usato per profumare i pavimenti e i divani prima di un simposio, in modo da aumentare la gaiezza dei partecipanti, così riferisce Plinio...

 

 

Il Nasturzio
(kardamon; nasturcium, Nasturtium officinale)- è detto comunemente crescione d'acqua proprio perché cresce e vive immerso in acqua con gran parte del fusto, lungo acque chiare e poco profonde, nei fiumi e sorgenti montani, o comunque nelle zone boschive umide. Un tempo questa erba si trovava con una certa frequenza ed era possibile raccoglierlo un po' dovunque, oggi a causa dell'inquinamento delle acque la sua diffusione è sempre alta, ma non è più sicura la sua raccolta purtroppo. Anche questa piccola piantina fa parte del Giardino descritto nelle Argonautiche Orfiche...la sua presenza conferma il fatto che in quel Giardino si trova sicuramente una fonte, un ruscello o comunque un angolo umido e ombroso (anche tenendo conto della presenza del Capelvenere- di cui abbiamo già parlato- e del Cipero, ossia il papiro, con la sua esigenza di trovarsi vicino a fonti, sorgenti o anche laghi e corsi d’acqua, poiché le sue radici devono essere sempre sommerse).
Inoltre, proprio per analogia, le proprietà dissetanti del crescione erano già ben note nell’antichità: sono infatti citate da Senofonte che ricorda come fosse abitudine dei cacciatori persiani di portare con sé pianticelle di crescione per dissetarsi durante le battute di caccia. Sempre Senofonte riporta che, in caso di campagne militari faticose, i soldati venivano riforniti di pane e crescione. L'azione stimolante del crescione è parimenti conosciuta da sempre: Ippocrate lo raccomandava come espettorante, Celso nel "De re medica" lo consigliava come diuretico. Dioscoride nelle affezioni del petto ma anche come afrodisiaco, infatti classificava il seme della pianta "caldo", atto a stimolare Venere. Era dunque molto nota nell’antichità per le sue virtù medicinali, soprattutto fra gli Elleni che ne mangiavano i teneri germogli per tonificare ed irrobustire il proprio corpo, essendo sempre stata conosciuta come "insalata che guarisce”..
Anche presso i Romani questa pianta erbacea era giudicata corroborante e afrodisiaca. Plinio riteneva che rendesse più pronta la mente, e Petronio ricorda in modo molto vivace le virtù di un particolare unguento a base di crescione: ““Enotèa, sacerdotessa di Priapo…” Già Aristofane ironizzava su questa pianta (celebre la citazione dal Socrate delle ‘Nuvole’), mentre Plinio ricorda che “Nasturtium nomen accepit a narium tormento” a causa del suo odore molto pungente… i fiori, le foglie e i semi di questa pianta dal sapore aspro e dall’odore piccante sono stati utilizzati nella preparazione di cibi e unguenti vari da tempo immemorabile, e solo adesso la medicina ne sta riscoprendo le grandi virtù curative, mentre ha conservato un posto abbastanza importante fra le erbe aromatiche impiegate in cucina.
E…una delle caratteristiche più piacevoli per chi lo coltiva, specialmente per i giardinieri impazienti, è che il crescione è una fra le piante di più rapida germinazione e crescita, come già notava Columella...

 

 

L’elleboro nero è una pianta decisamente particolare, velenosissima ma estremamente bella e delicata, anche nota come ‘rosa di Natale’ o ‘rosa delle nevi’ in quanto fiorisce dall’inverno alla primavera (il ‘nero’ si riferisce alla radice); nonostante l’apparente fragilità e delicatezza evocata dai suoi grandi fiori bianchi a forma di coppa, pochi altri generi sono longevi quanto gli ellebori, i quali riescono a vivere, una volta assestatisi nel loro ambiente, anche per secoli. Dioscoride ci informa in modo perfetto che l’Helléboros mélas cresce in basso – sui colli – e nei terreni poveri d’acqua, ed è ottimo quello di località aride come Antíkyra. Questi dati relativi all’habitat trovano riscontro in ciò che si può osservare anche oggi, infatti l’Helleborus niger cresce dal livello del mare – dove sorge per esempio Anticira – fino a 2000 metri, e privilegia i territori boschivi molto ombrosi. La città della Focide Antíkyra nel golfo di Corinto, a 20 km da Delfi, in epoca ellenistica ebbe rinomanza e floridezza perché vi si trovava l’elleboro e molti malati vi soggiornavano per curarsi: “Ma al di sopra di tutto, questa città era conosciutissima nell'antichità per il rimedio contro la pazzia e l'epilessia, l'elleboro. “

Un aspetto che attribuisce agli ellebori una certa superiorità rispetto a fiori invernali quali i crochi e i bucaneve, è che essi possono vantare una fioritura di lunghissima durata: già i boccioli sono attraenti prima ancora che si aprano, ma in seguito le corolle dispiegano il loro fascino per intere settimane, dal periodo invernale (fioriscono anche con la neve, facendo capolino dal manto nevoso- per questo molti li confondono con i bucaneve) arrivando anche a primavera inoltrata, grazie al fatto che i fiori ormai fecondati persistono sulle piante, portando lentamente a maturazione i loro semi. In tal modo, gli ellebori, che abbiamo visto nascere all’inizio dell’inverno, riescono poi facilmente a convivere con fiori come le primule e le polmonarie, che invece fioriscono solo assai più tardi- fate una passeggiata in un bosco a marzo e ve ne renderete conto..

Come abbiamo visto, è un ingrediente importante delle purificazioni, infatti: "Alcuni chiamavano melampodion l'elleboro nero "perchè Melampo purificò e curò con questo le figlie di Preto divenute folli." La terapia imposta da Melampo fu una ciotola di latte munto da alcune capre che si erano cibate di ellebori, i quali da allora iniziarono a godere della fama di farmaci indicati per le malattie mentali. Plinio non si limita a citare questa sola virtù, perché, dopo aver operato una distinzione fra elleboro bianco (che è invece tutt'altra specie, Veratrum album- il veratro, famigliare a chiunque compia escursioni in alta montagna) e nero (Helleborus niger), precisa che queste erbe, se cucinate con lenticchie o con rafani, curano l'epilessia, le vertigini, il delirio, il tetano, la gotta, l'idropisia, la sciatica e un'infinità di altri mali. Infine, anche se si è in salute, secondo Plinio, vale la pena di seccarle, triturarle e aspirarne le polveri con le narici per starnutire a volontà: una sorta di cura preventiva per ogni malattia.

"Lo usano anche per purificare le abitazioni e le greggi, recitando al contempo un incantesimo" Inoltre, il vino prodotto da viti che crescono vicine all'elleboro agisce come depurativo e si usa per aspergere le abitazioni a scopo di purificazione; sempre per questo motivo le viti di Elea producevano un vino diuretico e dimagrante. Plinio inoltre ricorda che se ne facevano suffumicazioni nelle case per purificarle.

Teofrasto narra che l’elleboro nero era ritenuto tanto potente da inebriare coloro che lo raccoglievano con una certa frequenza, dato che la pelle ne può assorbire le tossine. Per estrarlo dal suolo occorre svolgere dei riti: i raccoglitori erano soliti mangiare aglio, bere vino non diluito, tracciare un cerchio attorno alla pianta con una spada e invocare Apollo e Asclepio, quindi l’incaricato della raccolta doveva volgere lo sguardo verso oriente, invocare il favore degli Dei ed osservare il volo di un aquila: quasi sempre infatti un’aquila si trova nei paraggi- è l’animale che custodisce questa pianta- e se vola vicino è segno che colui che raccoglie l’elleboro morirà entro un anno e che gli Dei non consentono la raccolta; e infine svellerlo il più in fretta possibile onde evitare che potesse aggredire in qualche modo il rizotomo. Infatti, se accidentalmente si rompe una parte della pianta e questa viene al contatto della pelle può provocarne l'ulcerazione.
Anche per la somministrazione dei medicamenti a base di Elleboro la procedura era ritualizzata: “la cura dà buoni risultati nei giorni nuvolosi, altrimenti compaiono dolori insopportabili ed è preferibile somministrarlo d'estate piuttosto che d'inverno".

L'elleboro bianco degli antichi è invece il nostro veratro o falsa genziana,forse più pericoloso ancora di quello nero. Un tempo veniva adoperato, nonostante la sua velenosità, per favorire la concentrazione mentale. Il filosofo accademico Carneade lo usava tranquillamente:"Quando doveva discutere con Crisippo si purgava in precedenza con l'elleboro, perché la sua mente fosse più sveglia e potesse confutare più prontamente l'avversario. Un tal beveraggio lo può far appetire soltanto un'attività tutta tesa a solida gloria"
Il bianco era considerato ancor più valoroso nella cura di molti disturbi "sed multum terribilius nigro" tant'è vero che, dopo averlo assunto, ci si affrettava a vomitarlo. Plinio parla di "magno terrore famae" cioè di grande terrore che si accompagnava alla celebrità del farmaco, nondimeno biasimava questi timori asserendo che più se ne prende meglio lo si smaltisce. I medici lo prescrivevano nella dose di 2-4 dracme ed Erofilo di Calcedone lo paragonava ad un fortissimo condottiero: "infatti -scrive Plinio - dopo aver stimolato tutto quanto internamente esce fuori esso stesso per primo..."

 

Alcea 
(alkya; malva alcea), è una delle varietà della malva- in Sicilia la chiamano ancora ‘piccola arcea’. Come tutte le piante della famiglia, è estremamente benefica in ambito terapeutico, ed elencare tutte le sue proprietà sarebbe davvero una lunga impresa. Basti dire che Plinio la considerava una vera panacea, al punto da affermare che chi ne beve giornalmente il succo viene preservato da ogni malattia. Plinio ci tramanda anche che era considerata la pianta del desiderio sessuale. Era infatti considerata un potente afrodisiaco: “è a tal punto ‘venerea’ che secondo Senocrate i semi della specie, usati per curare i disturbi femminili, aumentano infinitamente il desiderio sessuale.”
Anche questa fa parte del Giardino descritto nelle Argonautiche Orfiche "l'alcea e la panacea e il carpaso e l'aconito e molte altre piante medicinali di questa regione."
Bisogna ricordare che gli Antichi sapevano benissimo che la pianta è sacra agli Dei, e che è in grado di placare le passioni umane legate al vizio. Pitagora addirittura scrisse: “seminala, ma non mangiarla; essa è un bene così grande da doversi riservare al nostro prossimo, piuttosto che farne uso con egoismo per il nostro vantaggio". Si rifiutavano di usarla dunque per meri fini alimentari, tuttavia in passato (e fino ad epoche recenti nelle campagne) era molto apprezzata anche come alimento, essendo perfettamente commestibile, dalla radice alle foglie, ed è davvero gustosa (Galeno stesso le attribuisce grandi poteri medicinali ma anche un gusto molto piacevole, e Cicerone la gradiva molto). Come se tutto questo non bastasse, ha anche grandi virtù nella cura della bellezza; insomma, si tratta di una pianta bella e buona, dagli infiniti pregi.

 

Capelvenere
Adiantos; Adiantum capillus Veneris (noto nella tradizione popolare come 'barba di Giove'), il ‘grazioso’ secondo le Argonautiche Orfiche, una specie di felce, i cui piccioli delle foglie sono tanto sottili da assomigliare a capelli. Questa pianta ha una proprietà assai degna di nota- ciò è alla base della radice del suo nome greco, adiantos- le sue foglie non si bagnano mai. Anche se immerse in un vaso colmo d'acqua, o bagnate da pioggia e rugiada, rimangono asciutte: proprio come i capelli della Dea appena emersa dal mare, da qui il nome della pianta.
Un altro particolare degno di nota è la preferenza per luoghi bui e poco assolati, come appunto le caverne; questo probabilmente è alla base della sua consacrazione a Plutone e Persephone.
Curiosamente predilige i luoghi molto umidi come, ad esempio, le fessure delle rocce soggette a stillicidio, vicino alle cascate, all’imboccatura delle grotte, etc. Pianta quindi connessa inevitabilmente con le Ninfe delle acque, deve il suo nome alla leggiadria delle sue fronde e dei suoi esilissimi gambi neri. Teocrito riferisce che il capelvenere era tra le piante della fonte ove si recò l’argonauta Hylas in cerca d’acqua per la nave: “presto scorse una fonte, in un basso terreno; intorno cresceva molto fogliame, scuro chelidonio e verde capelvenere, apio fiorente e graminia serpeggiante. In mezzo all’acqua le Ninfe intrecciavano un coro, le Ninfe insonni, le Dee temibili per i campagnoli, Eunica, e Malide, e Nicea sguardo di primavera.” Una Ninfa particolarmente legata al Capelvenere è Driope...
Ha anche molte proprietà medicinali, legate alla sua natura umida, poiché infatti l’infuso delle sue foglie è uno dei mezzi più efficaci per combattere tutti i sintomi del raffreddamento (Dioscoride lo prescriveva contro l’asma ). Dal momento che ha un gusto molto piacevole, nei tempi passati era assai apprezzato anche come semplice tè.
Come dice Plinio "alla base delle medicine sta la ben nota simpatia e antipatia delle cose", perciò una pianta che ricorda i capelli della Dea ha la proprietà di arrestare la caduta dei capelli, sempre secondo Plinio...

Aggiungo solo che anche questa pianta, proprio come il caprifoglio e innumerevoli altre, è stata 'presa in prestito' dai cristiani che, con la loro ormai proverbiale fantasia, hanno semplicemente sostituito il nome di Venere con quello della madonna..ma, come dicevo prima, nella tradizione popolare si è conservato il vero nome (anche in inglese: maidenhair)

 

 

Ciclamino
(Kyklamìs, Cyclamen europaeum)- viola, ioeidés, è quello del Giardino delle Argonautiche Orfiche. Come saprete, questo fiore delicato e dolcemente profumato fiorisce dall’autunno fino all’inizio della primavera, ma le sue belle foglie sono facilmente riconoscibili durante tutto l’anno. Plinio lo definiva anche ‘ombelico della Terra’. Lo si chiama anche ‘panporcino’, perché i maiali sono ghiotti delle sue radici e sono insensibili al veleno contenuto in esse. In realtà, la tossicità si elimina con la cottura sul fuoco, come si faceva nell’antichità (e anche nelle campagne, fino a qualche tempo fa- adesso non saprei..): le radici venivano arrostite e tritate, poi impiegate per confezionare piccole torte, dal potere afrodisiaco- non per niente la piantina ha delle belle foglie a forma di cuore. Teofrasto riferisce che questo fiore veniva usato, da un lato per eccitare la sensualità, dall’altro per favorire il concepimento. In effetti la sua forma ricorda vagamente l’utero, oppure, come sostengono altri, ha tali proprietà per analogia: il peduncolo possiede infatti la particolare caratteristica di attorcigliarsi a spirale, dopo la fioritura, portando la capsula dei semi molto vicina al terreno. Questa stessa caratteristica, ossia la tendenza del gambo del fiore ad attorcigliarsi a spirale quando il fiore è fecondato, ha suggerito anche il nome greco della pianta, che deriva da kyklos, cerchio. Questa credenza risultava inoltre rafforzata da una antica usanza, quella di adornare la camera dei giovani sposi con piccoli mazzi di questo fiore, in chiaro augurio di fertilità. Quale che sia il motivo (entrambi mi sembrano accettabili), non si deve trascurare la testimonianza di Plinio: “là dove è stato piantato, non possono più recare danno i filtri malefici: lo chiamo perciò amuleto”, giustificando così il consiglio di piantarlo in tutti gli orti e giardini. Una curiosità riferita da Teofrasto: se i petali del fiore vengono lasciati macerare nel vino, questo causerà una forte ubriachezza....




 


Peonia
(paionie; Paeonia officinalis): un’altra pianta del Giardino delle Argonautiche; ha dei bellissimi fiori rosa, rossi o bianchi, e può persino capitare che i fiori siano tanto grandi da piegare i fusti che li portano; dolcemente profumata e di lunga durata, è definita 'rosa senza spine'. Sono piante molto longeve, che possono arrivare fino a 200-300 anni, dando ragione all'antico proverbio cinese che recita: "Chi pianta una peonia non lo fa solamente per la sua vita, ma anche per quella dei figli e quella dei nipoti".E’ una pianta che ama la luce del sole, ed i miti riguardanti la sua nascita ne spiegano il motivo: Paeon, figlio o allievo di Asclepio, fece bere a Latona il succo di un fiore, fino ad allora senza nome, che cresceva sulle pendici dell’Olimpo; solo allora la Dea sentì svanire i dolori e poté felicemente partorire. Infatti, Plinio il Vecchio ricorda che la scoperta di questo fiore spetta proprio a Paeon, in onore del quale prese questo nome. Un’altra variante ricorda che fu invece Ade a trasformare Paeon nel bellissimo fiore: Paeon aveva guarito il Dio e Asclepio cercava vendetta per questo, allora Ade lo trasformò nel bellissimo fiore.
Il suo legame con la figura emblematica di Paeon lo rende un fiore dalle molte virtù curative, di cui gli Antichi conoscevano bene le straordinarie proprietà (i Romani curavano con essa più di 20 tipi di malattie). Da ricordare il fatto che si tratta di rimedio efficace contro la follia, e secondo lo Pseudo-Apuleio: “se si lega al collo di un folle dell’erba peonia, lo si vedrà rinsavire subito. E se la porterà con sé, il male non lo colpirà più.” Da non dimenticare, però, il suggerimento di Teofrasto: coglierne i semi e la radice soltanto di notte, per evitare di essere sorpresi dal picchio che la considera a lui consacrata e che potrebbe vendicarsi di chi la sradica in modo davvero... poco piacevole!
Dalla bellissima tradizione del Feng Shui sappiamo anche che “quando si è alla ricerca di una compagna fedele e amorevole, un dipinto raffigurante le peonie cinesi o un vaso di questi fiori dovrebbe essere collocato all'interno del ‘settore matrimonio’, nell’angolo a sud-ovest della propria camera da letto, per attirarvi la partner ideale o per migliorare la situazione sentimentale e condurre o mantenere un matrimonio felice. Una coppia di peonie rosa invece vale da catalizzare energetico soprattutto per migliorare l'amore e per il romanticismo.”

 

 

Mirra
Dal latino 'murra' o 'myrrha',derivata dal greco σμνρνη (Empedocle,Erodoto) e mutuata dal vocabolo greco più antico μνρρα,presente già in Saffo e di evidente derivazione semitica-ebraica 'mrr/morr',arabo 'murr'. La resina è 'verde' ed 'a-mara',da cui il nome 'myrra'. La resina estratta dal tronco è considerata più nobile rispetto a quella ricavata mediante incisione dalla corteccia (Isidoro).Nell'antico Egitto è detta 'antiu',termine usato per indicare le piante di mirra della regione africana di Punt (Eritrea).Gli antichi Rà egizi,cultori di questa fragrante resina,ne consumavano enormi quantità,sopratutto a Eliopoli nei riti di adorazione del Sole,al mezzodì.Nel processo di imbalsamazione (Erodoto) una volta che il corpo era stato svuotato degli organi,le cavità erano riempite di mirra frantumata,cassia e altre sostanze aromatiche ad eccezione dell'incenso:una volta ricucito,il cadavere,era così immerso nei sali di natron per molti giorni.In Mesopotamia la mirra era prescritta per pozioni medico-terapeutiche e gli Assiri la impiegavano in fumigazioni balsamiche per i malati.La sostanza deriva da un arbusto spinoso del genere 'Commiphora' e il termine designa la resina gommosa che trasuda dalla corteccia del 'Balsamodendron Myrrha' che tuttora cresce in Arabia,Etiopia,Somalia e isola di Socotra.La specie del genere 'Commiphora' quindi,variano a seconda delle regioni cui si riferisce: 'kataf e myrrha' dai monti di Hijar dell'Arabia Saudita,'kataf,myrrha e gileadensis' dagli altopiani delo Yemen,la'habessinica' dalla regione dell'Hadramaut e la 'foliacea habessinica e gileadensis' dal Dhofar. Esiste infine anche la 'Myrrhis odorata' che è un albero della famiglia delle 'Umbelliferae' e che anche questo cresce nella penisola arabica e in Somalia. La mirra è nota per essere un'essenza calda,mordente ed avere quell'amaro che squote l'anima,ossia che provoca effetti euforici ed eccitanti fino all'estasi e alla cosidetta 'trance'.Lo studioso Luce ci ricorda che proprio la mirra è utile nelle operazioni magiche 'il cui oggetto è il contatto con le forme naturali'.L'essenza di questa resina è di due tipi:una (la vera) che è quella che si ottiene in Arabia,dalla 'Commiphora myrrha' che si chiama 'erabol' e l'altra chiamata 'bisabol' che si raccoglie in Somalia dalla 'Commiphora erytrhaea' più balsamica e speziata.Negli inni orfici la σμνρναν è prescritta come offerta specifica ad alcune divinità : Poseidone,Nereo, Leto,Protogono.Questa pianta è stata anche usata sia per conservare che profumare il vino,rendendolo più pungente e fragrante;nonchè il vino mescolato alla mirra offerto al Cristo (Matteo,II),sia in Oriente,per imbalsamare i morti,anche per il suo diretto legame con il Sole e quindi conservare ciò che va decomponendosi. Le gocce della resina,hanno appunto relazione col mito di Myrrha,figlia di Cinira e di Cinereide che generò Adone (nell'immagine) nato dal suo amore incestuoso per il padre,per la cui morte furono versate queste lacrime in gocce di resina:per punizione fu poi mutata nell'omonimo albero della mirra. Teofrasto e Plinio forniscono altre notizie sulla raccolta dell'incenso e della mirra nel paese dei Sabei e nell'Hadramaut e che avvalorano appunto il forte legame che queste resine ebbero con il culto del Sole nei luoghi più sacri dei Sabei.

 

 

Croco
Teofrasto lo chiama appunto ’kroke’, filamento, dai lunghi stimmi gialli o rossi, che rappresentano un legame d’amore. Narra Ovidio: “ …/et Crocon in parvos versum cum Smilace flores/praetereo… (…e non parlo di Croco mutato in piccoli fiori [zafferano] insieme con Smilace…); Nonno di Panopoli, Dionisiache, XII, 85-86: “…Croco che desiderava ardentemente Smilace, ragazza dalla bella ghirlanda, diventerà un fiore degli amori”. La Ninfa Smilax, immortale amata da un mortale, un amore destinato inesorabilmente a finire, poiché in quanto mortale, Krokos era destinato a perdere la Ninfa. Così gli Dei mutarono la forma di entrambi, e Krokos divenne questo fiore meraviglioso; a detta di Nonno, tale fiore veniva posto da Greci e Romani sulle tombe degli amanti morti per amore.
Un'altra variante del mito ricorda molto quella di Apollo e Giacinto: Krokos era un fanciullo (originario o di Sparta o di Eleusi), amato da Hermes; il Dio involontariamente lo uccise con un lancio del disco e quindi tramutò il fanciullo nel bel fiore.
La terza variante è quella fornitaci da Pausania: “Krokon, il primo ad andare ad abitare al di là dei Rheitoi, in quel luogo che si chiama ancora oggi ‘Reggia di Krokon’. Gli Ateniesi dicono che questo Krokon sposò la figlia di Celeo, Sesara; non lo dicono tutti, ma soltanto quanti appartengono al demo degli Scambonidi. Da parte mia non sono stato capace di trovare la tomba di Krokon.”
E' importante quanto riferisce Lucano: "come suole cospargersi sulle intere statue lo zafferano coricio.."...fiore e colore assai caro agli Dei, alle Dee in particolare (cfr l'importanza del color croco nell'Induismo..)